Bandiera Bianca
Michela Murgia non è stata sempre "la scrittrice dei diritti", lo è diventata
Agli esordi masticava amaro dinanzi alla letteratura appiattita sulla militanza come unico criterio di qualità. Poi ha preso un'altra strada fino a ritenere che un autore dovesse per forza salire sulle barricate. Storia di una corrispondenza
Sarò lungo, perdonatemi. Quando avevo recensito il suo esordio su non so più che webmagazine letterario, era più di quindici anni fa, Michela Murgia mi aveva scritto entusiasta perché unico avevo colto il sottotesto teologico de “Il mondo deve sapere”, all’epoca pubblicato dall’eroica ISBN, lì dove tutti avevano visto la solita lamentela sul precariato – incluso Paolo Virzì che successivamente ne avrebbe tratto un film con Sabrina Ferilli al solo costo di cambiare titolo, trama e nomi dei personaggi. Non sapevo ancora della formazione religiosa della Murgia, che me ne informò all’inizio di una corrispondenza (quelle corrispondenze moderne fatte di mail, telefonate, messaggi, tutto mescolato) che per qualche anno sarebbe stata anche quotidiana e che mi fruttò l’invio in anteprima delle primissime pagine word di un romanzo nuovo, diverso dal solito, che nessuno si aspettava ma che lei voleva provare: sarebbe diventato “Accabadora”.
Ciò mi consentiva qualche svarione: in negativo, come quando pubblicò “Ave Mary” e, su Tempi, me ne uscii con una recensione piccata che forse si perdeva in dettagli anziché cogliere il senso generale, pur riconoscendo la sua buona intenzione di pubblicare un saggio volenteroso più che furbo; in positivo, come quando per non so che altro webmagazine letterario la intervistai in lungo e in largo, ottenendone un dialogo su letteratura e realtà di dimensione pari a due paginoni del Foglio. In quest’occasione mi parlò del fatto che “in alcune penne italiane ci sia l’angoscia di descrivere l’attimo fuggente”. Riconobbe – erano i tempi in cui andava di moda Saviano – che “all’acquisto di "Gomorra" probabilmente non segue nemmeno la lettura, piuttosto ha assunto valore rappresentativo”, per cui “comprare Gomorra oggi è liturgia pura, vuol dire associarsi simbolicamente a Saviano Martire del Coraggio e della Denuncia, e la cosa che mi sconcerta è che probabilmente gli officianti sono gli stessi (troppi per essere diversi) che al cinema celebrano il cinepanettone per distrarsi”.
Poco prima di queste dichiarazioni, in una conversazione privata, mi aveva tuttavia detto che non sarebbe mai riuscita ad andare d’accordo con un uomo delle mie idee politiche, distanza che rimarcò nominandomi in un intervento pubblico, in un posto assurdo tipo Pavia, scorgendomi seduto in prima fila. Considerate che intercorreva fra noi questa franchezza, per cui se io ritenevo che “Accabadora” fosse un grandissimo romanzo ma con pagine un po’ mosce nella parte ambientata a Torino, glielo dicevo; se lei riteneva che io fossi occasionalmente un grandissimo imbecille, me lo diceva. Ricordandomi spiazzato dall’improvviso irrompere del tema, oggi mi sono domandato non quali siano le mie idee politiche (come diceva quello, sono di destra per i doveri e di sinistra per i diritti) ma almeno perché questo dettaglio in fin dei conti trascurabile dovesse irritarla o metterla per certi versi in crisi più del dovuto. “Ho la fortuna di possedere più registri”, notava nella lunga intervista di cui sopra, “e certo 'Accabadora' non poteva essere raccontata con il linguaggio spurio de 'Il mondo deve sapere', che comunque, checché ne dicano i miei editori, non ho mai considerato un esordio letterario”.
Oggi, rileggendo, forse ho capito. La Murgia degli esordi (letterari o militanti) aveva una forte consapevolezza della separazione dei registri, quello letterario e quello militante, e masticava amaro dinanzi alla letteratura appiattita sulla militanza come unico criterio di giudizio di qualità, quella insomma da cinepanettone civile. A creare attrito quando chiacchieravamo era forse però il fatto che in lei si facesse progressivamente strada la convinzione opposta, che l’avrebbe portata sia alla prosa militante tout court sia all’impegno politico del tutto svincolato dall’attività autoriale, come ad esempio quando volle candidarsi a governatrice della Sardegna. In questo, credo, ravvisava la distanza politica: non in questa o quella adesione ideologica ma nel presupposto stesso della questione, cioè che secondo me un autore dovesse starsene in disparte a rimirare la propria creazione limandosi svagatamente le unghie, mentre secondo lei un autore dovesse salire sulle barricate, eventualmente anche accantonare la scrittura per l’azione.
Sempre più convinta di questa posizione, che oggi la porta a essere commemorata su Repubblica come “la scrittrice dei diritti”, mi ha nel tempo cercato sempre un po’ meno, idem io, e ci siamo persi come nella vita accade di perdersi, testimonianza in fin dei conti consolante del fatto che, almeno, prima ci si aveva. Sto ricostruendo a memoria, quindi potrei sbagliarmi, ma credo che una delle ultime volte in cui ci siamo sentiti con la spontaneità un po’ cazzona dei primi tempi, dei famosi esordi, è stato quando aveva pubblicato su commissione un racconto per il Corriere. Si chiamava “L’incontro” e raccontava in termini essenziali ma profondi l’animus di due processioni in un paesino sardo; pura letteratura, destinata a non sobillare le coscienze ma a restare nelle antologie. Le dissi che era la cosa più bella che avesse mai scritto. Mi rispose di sì.
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