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Il caso dell'infermiera che uccideva i neonati ci ricorda una verità che abbiamo rimosso
Lucy Letby, una serial killer che non combacia con lo stereotipo
La strabordante quantità di pagine dedicata dai giornali inglesi a Lucy Letby, l’infermiera che ammazzava i bambini, e l’interesse che il caso ha suscitato anche oltremanica, trovano giustificazione nel fatto che la notizia sbaragli un paradigma cui ci siamo abituati da un paio di secoli. Per quanto le nude statistiche non collimino, in Occidente ha ormai prevalso una cultura protestante – ben impiantata sulla struttura economica del capitalismo – secondo cui esiste una netta distinzione fra il bene e il male: tutti i buoni stanno da una parte, tutti i cattivi dall’altra. È una lettura del mondo semplificata, che andava bene per i contadini della Sassonia nel Sedicesimo secolo ma che noi, ben più sofisticati, abbiamo accettato e interiorizzato volentieri poiché consolatoria, rassicurante. I miti dei grandi serial killer ci hanno rafforzati in questa convinzione: erano persone frustrate desiderose di rivalsa, oppure prive di empatia, comunque dei misfit che si autoescludevano dal consesso umano. Erano dei cattivi da manuale. L’infermiera inglese traspare invece come una persona che amava gli altri, quanto meno stava in mezzo a loro, di sicuro svolgeva un mestiere imperniato sull’aiutare le persone e indubbiamente avrà fatto del bene nonostante tutto il male che ha fatto. Non combacia con lo stereotipo; alcuni psicologi addirittura ipotizzano che possa essere stata spinta a uccidere proprio dal senso di onnipotenza dato dal suo mestiere così benefico, dalla gratitudine dei pazienti curati, dalla soddisfazione di essere decisiva per la vita altrui. Il suo caso ci sconvolge perché ci ricorda una verità che abbiamo rimosso: non solo i cattivi, anche i buoni sono pericolosissimi.
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