Bandiera bianca
Un'idea di arte passatista e miserabile alla Biennale di Venezia
Tradizione, archivio, lutto, immigrati, morte, diseguaglianza, povertà. Le parole dei Leoni d’oro e d’argento descrivono un'edizione lutulenta
Di arte non capisco nulla, cioè capisco lo stretto necessario che mi consente di visitare mostre e musei trascorrendo un gradevole paio d’ore ma senza trinciarla da gran sultano. Mi limito pertanto a registrare che i Leoni d’oro e d’argento della sessantesima Biennale di Venezia sono andati a un collettivo maori che ha prodotto una struttura metallica che richiama i tessuti tradizionali; al padiglione dell’Australia che ha realizzato, cito, “un archivio carico di lutto”; a un’artista di origine nigeriana che ha ripreso degli immigrati; a un’artista palestinese che ha dedicato il riconoscimento “ai giovani che muoiono per documentare quanto avviene a Gaza”; a un’attivista kossovara che si è dedicata alle diseguaglianze sul lavoro; a una femminista turca che ha proposto un’opera sull’emigrazione dei poveri.
L’arte non la capisco ma le parole sì, e sono “tradizione”, “archivio”, “lutto”, “immigrati”, “morte”, “diseguaglianza”, “povertà”. Ciascuna di esse accende nel cervello un campo semantico che ci fa associare la Biennale a un’idea di arte passatista, lutulenta, miserabile: ci fa venire in mente “la tradizione a Venezia”, “gli immigrati a Venezia”, “la diseguaglianza a Venezia”, “la povertà a Venezia”. La morte, dell’arte, a Venezia.