Bandiera bianca
Il candidato inglese Tugendhat e la politica degli acronimi
Il candidato conservatore ha impostato la propria campagna su quattro punti chiave, le cui iniziali formano un acronimo che si presta a essere usato come un insulto. Ecco perché se tutti i politici al mondo facessero così sarebbe un enorme balzo in avanti
Il povero Tom Tugendhat, candidato alla leadership dei conservatori, è caduto vittima della passione tutta inglese per gli acronimi, nel lanciare una campagna fondata su quattro punti chiave le cui iniziali maiuscole, lette di filato, davano la parola T-U-R-D, che vi lascio cercare sul dizionario. Alla disavventura coprolalica di Tugendhat lo staff ha cercato di porre rimedio trovando un sinonimo per il quarto punto chiave, ottenendo così un T-U-R-W che non ha senso compiuto ma, almeno, non richiama le deiezioni. Vero anche che Tugendhat avrebbe potuto cavalcare l’ondata marrò in cui si era infilato, sulla scia dell’epiteto con cui Giorgia Meloni si è notoriamente presentata a Vincenzo De Luca, o di quando dalla Casa Bianca trapelò che George W. Bush soleva chiamare Karl Rove “turd blossom”, fiorellino che sboccia sullo sterco.
Avrebbe potuto impostare tutto il resto della campagna su acronimi che restituissero le parolacce di quattro lettere che abbiamo imparato studiando inglese alle medie: quella con la effe, quella con la esse, quella con la ci (il dizionario lo avete, sbizzarritevi). Se tutti i politici al mondo facessero così, sarebbe un enorme balzo in avanti, nell’epoca in cui i sostenitori di Donald Trump si arrovellano su nuovi insulti con cui screditare Kamala Harris. Sarebbe un modo per dire agli avversari: “Va bene, a insultarmi provvedo da solo; adesso parliamo di politica?”.
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La vittoria di Meloni (Simona, non Giorgia) e le parole magiche
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