Foto Getty

Bandiera bianca

Puntare il dito sulla morale dei calciatori, per sentirsi migliori

Antonio Gurrado

Nell’ultimo rigurgito dell’indagine sulle scommesse, va di moda emettere diagnosi a occhio sulle dipendenze dei giocatori coinvolti per consolarsi del proprio vuoto interiore, in attesa della prossima partita

Poveri calciatori, così brutti di dentro e così belli di fuori. Nell’ultimo rigurgito dell’indagine sulle scommesse, va di moda dire che i giocatori coinvolti puntano sugli eventi sportivi non per soldi (ne hanno a iosa) né per adrenalina (ne hanno ancora di più); si porta molto argomentare come a ridurli alla dipendenza da betting siano stati l’eccesso di tempo libero e l’assenza di interessi. Si mormora che, se anziché col telefonino in mano avessero passato le giornate a leggere un libro o ad andare all’opera, non avrebbero scommesso – che so – sulla pelota basca né sull’equitazione uzbeka; si assicura che, se avessero praticato il volontariato o quanto meno il bricolage, non avrebbero provato il bisogno compulsivo di sprecare denaro a colpi di pollice.

Poveri calciatori, vittime della tragica condizione di vivere in una nazione in cui abitano non solo sessanta milioni di allenatori, ma anche altrettanti psicologi in grado di emettere diagnosi a occhio. Sessanta milioni di persone che guardano il calcio per distrarsi e non pensare al buco nero che si portano dentro; salvo poi, quando la partita finisce e resta l’indagine della magistratura, puntare il dito sulla voragine morale altrui, consolandosi col sentirsi migliori e con l’aspettare che inizi la partita successiva.

Di più su questi argomenti: