Boudewijn Chabot

Il padre dell'eutanasia olandese fa mea culpa

Matteo Matzuzzi

“Ormai anche per i medici l’iniezione letale è diventata una routine”, dice Boudewijn Chabot

Roma. Già tre anni fa lo psichiatra Boudewijn Chabot, il padre dell’eutanasia olandese – fu lui che nel 1991 prescrisse a una sua paziente una dose letale per alleviare le sofferenze, e per questo fu dichiarato colpevole di suicidio assistito senza scontare però alcuna pena – aveva lanciato l’allarme: troppa anarchia nel decidere chi poteva accedere ai protocolli legali che proprio lui aveva contribuito a elaborare venticinque anni prima; le maglie erano state troppo allargate e le conseguenze, sul medio e lungo periodo, sarebbero state incontrollabili. Quasi che quell’atto definitivo e senza possibilità di porvi rimedio fosse nient’altro che un medicamento, un’alternativa fra le tante. La cosiddetta buona morte che diviene la normalità, anche per coloro rispetto ai quali dovrebbe ancora esistere un confine invalicabile, e cioè i malati mentali, incapaci di decidere in coscienza che fare della propria esistenza.

 

Chabot ha preso carta e penna e ha scritto un lungo articolo sul quotidiano Handelsblad in cui riafferma la sua posizione, mettendo in fila l’uno dopo l’altro i numeri che confermano quanto era già evidente nel 2014: i casi si sono moltiplicati, l’eccezione si è fatta regola. “Ho combattuto e combatto in favore dell’autodeterminazione” del malato, premette lo psichiatra, “ma ciò che mi spaventa oggi è il ritmo con cui si pratica l’eutanasia su pazienti affetti da demenza e con problemi psichiatrici cronici”. Dai 12 casi di “dolce morte” praticata a pazienti con demenza nel 2009 si è passati ai 25 dell’anno seguente. Quindi, un continuo crescendo, fino ai 141 del 2016. Per i malati psichiatrici cronici, l’aumento è stato ancora più esponenziale: da zero a sessanta casi in sette anni. “Recentemente –  ha scritto Chabot – è stata pubblicata  la terza valutazione sulla legge entrata in vigore nel 2002 e come le volte precedenti, il tono è positivo: ‘Tutte le parti interessate sono soddisfatte riguardo al contenuto e al funzionamento della legge’. Questo suona bene, ma non è così. Per capire cosa è andato storto –  osserva lo psichiatra –  bisogna ricordare i tre requisiti prescritti dalla legge, e cioè che ci deve essere una richiesta volontaria e informata, le sofferenze devono essere insopportabili e senza speranza e non ci deve essere altra soluzione ragionevole se non l’eutanasia”. E le cure palliative che rendono la sofferenza meno insopportabile?, si domanda Chabot, che punta in particolare l’indice su quel che avviene nella “Clinica fine vita”, considerata “un centro d’eccellenza e all’avanguardia” che accetta chiunque si sia visto negare dal proprio medico l’applicazione del protocollo eutanasico.

 

“Fino al 2015, un quarto dei casi di eutanasia riguardanti i pazienti con demenza era trattato da questi medici. Nel 2016, i casi sono saliti a un terzo. Quaranta pazienti su sessanta qui trattati avevano problemi psichiatrici”. Fatti i conti, si comprende in fretta che ogni medico della “Clinica fine vita” ha praticato un’eutanasia al mese su persone sconosciute, mai viste prima. Senza avere alcun riferimento clinico sul paziente destinato a essere soppresso. Elemento sufficiente per domandarsi “che cosa accade a un medico per cui una iniezione letale diviene una routine mensile”, scrive Chabot. Il fatto è che, prosegue, “noi siamo alle prese con un atto moralmente problematico: come si può uccidere qualcuno che non capisce che sta per essere ucciso?”. E i casi, in questo senso, non mancano affatto, come quello della donna “terrorizzata e bloccata a letto con la forza mentre le si praticava l’iniezione letale”. Terrorizzata perché “il sedativo non aveva avuto effetto”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.