Il paradosso della vita di Charlie Gard
“Si pone il problema dell’accanimento terapeutico”, dice Giancarlo Cesana, professore alla Bicocca, già direttore del Policlinico di Milano. No allo scontro tra estremi, bisogna trovare una posizione equilibrata
“Si pone il problema dell’accanimento terapeutico”. A queste parole Giancarlo Cesana premette tutto ciò che è, o dovrebbe essere, ovvio per un uomo di scienza e di fede che sa, socraticamente, di non sapere. Non sa i dettagli più minuziosi del caso del piccolo Charlie Gard, non ha accesso alla sua cartella clinica, non manda a memoria le quattro sentenze discese dalla controversia fra i genitori e l’ospedale Great Ormond Street Hospital, non padroneggia tutti i cavilli legali di un caso internazionale che è rimbalzato ovunque, da Trump al Papa. Sa però che Charlie non respira da solo, che la sua fragile vita dipende da una serie di supporti artificiali che non sono considerati terapie, sa che la sindrome da deplezione del Dna mitocondriale è una faccenda rarissima e un enigma medico, e sa anche che, paradosso supremo, “la morte è un aspetto della vita”.
E quindi si pone molto seriamente il problema dell’accanimento terapeutico. L’alimentazione e idratazione di Eluana Englaro, dice Cesana, era un’altra storia, un altro quadro clinico e umano, e nella vicenda inglese a complicare lo scenario c’è l’ipotesi di una cura sperimentale americana, idea che tutti gli esperti interpellati, a partire dagli stessi che l’hanno concepita, giudicano al più incerta, improbabile. Ma i genitori di Charlie, com’è comprensibile a chiunque non venga da Plutone, volevano tentare comunque la cura, contro il parere dei medici e forse anche contro ogni speranza. In questa crepa di sfiducia fra medico e paziente si è inserita la legge.
Non c’è bisogno di essere medici per provare a immedesimarsi con le complicazioni del caso e non c’è bisogno di aver letto Dostoevskij per capire che Charlie è una finestrella aperta sul grande mistero del dolore innocente, ma Cesana ha il vantaggio di essere medico e di aver letto Dostoevskij, non soffre della tentazione di risolvere con un quiz a crocette una questione che riguarda vita, scienza, tecnica e legge, praticamente una rappresentazione in scala dell’intero dramma umano. E dunque si pone il problema dell’accanimento terapeutico, che detto in altri termini è il problema del confine fra il coraggio e la temerarietà, fra l’affermazione della vita come bene supremo e l’accettazione della morte come condizione data. Un bel paradosso.
Professore di Igiene generale applicata all’Università Bicocca, già direttore del Policlinico di Milano, una vita passata in Comunione e Liberazione dopo un folgorante incontro con don Giussani nel 1971 e recente autore di un bel libro di memorie a cavallo fra la psicanalisi e l’educazione (“Ed io che sono?”, La Fontana di Siloe), Cesana osserva il clima strumentale e un po’ da tifoseria che si è creato attorno a Charlie e nota che “una certa posizione che si presenta come a favore della vita a tutti i costi corre il rischio di diventare scientista”, cioè di affidarsi a ogni mezzo tecnico pur di mantenere una vita che se ne sta andando, con tutto il suo carico di dolore e mistero. I vescovi inglesi hanno espresso la stessa idea in questo modo: “Non dobbiamo mai agire con la deliberata intenzione di terminare una vita umana, inclusa la rimozione della nutrizione e idratazione, così da risultare nella morte. Dobbiamo a volte riconoscere, tuttavia, i limiti di ciò che può essere fatto”. Per un’argomentazione più cogente Cesana rimanda a un articolo, denso di particolari tecnici, scritto da don Roberto Colombo su Ilsussidiario.net, dove il bioeticista commenta il trattamento sperimentale americano, vero oggetto del contendere nel caso di Charlie, come “straordinario e non clinicamente né eticamente obbligatorio, ma neppure medicalmente e moralmente indecente”. Una posizione equilibrata in un momento di scontro fra estremi.
Allo stesso tempo, Cesana riconosce che all’apparire di sentenze che riguardano la vita “il mondo pro life si sente minacciato, perché c’è una tendenza generale fortissima ad approvare leggi in favore dell’eutanasia, anche infantile, quindi la preoccupazione esiste, e non è campata per aria”. C’è, insomma, il problema di un contesto sociale e giuridico che va in una certa direzione, e questa osservazione vale anche se quello di Charlie fosse riconosciuto all’unanimità come un caso di accanimento terapeutico. Qualcuno lamenta l’ingresso della legge in un caso che dovrebbe essere risolto nella zona grigia dei rapporti umani, ma Cesana non è contrario al pronunciamento giuridico in sé: “Le leggi esistono e sono strumenti fondamentali per prendere le decisioni. Il problema è che la legge sia buona, cioè sia conforme alla verità”.
Non è però un caso, spiega Cesana, che in Italia il caso abbia avuto una rilevanza mediatica più forte che in Inghilterra e in altre parti del mondo: “Da noi si è creato un clima di sospetto generale nei confronti dei magistrati, dei tribunali”. Difficile sostenere che l’inclinazione non abbia alle spalle buone ragioni. E a proposito di legge, vale la pena qui ricordare che nel caso di Charlie nessuno ha trascinato nessuno in tribunale. Non è stato un atto d’imperio della magistratura che ha imposto di uccidere un innocente e non sono nemmeno stati i genitori a rivolgersi a una corte nella speranza di salvarlo. È stata una procedura standard che entra in azione ogni volta che c’è un conflitto fra un paziente e i medici a proposito di un trattamento proposto. È così che gli schieramenti che sono scesi in campo, usando spesso Charlie come puro pretesto, usano queste distorsioni per promuovere la battaglia ultrasemplificata della legge contro la vita.