LaPresse/Simone Ferraro

"Sul fine vita il principio dell'autodeterminazione non può essere contestato"

Luigi Manconi

La solitudine del morente può essere mitigata, ma è un dato che non può essere eluso. E' una sconfitta inevitabile. Parla Manconi 

Pubblichiamo l’intervento che il senatore Luigi Manconi ha tenuto durante la discussione in Aula per l’approvazione della legge sul biotestamento.

   

Nel corso di questa discussione c’è stato chi, come il collega Compagna, mi ha accusato garbatamente di coltivare un’idea assoluta, se non assolutista, dell’autodeterminazione dell’individuo e, di conseguenza, del paziente. E ciò per aver citato un autore la cui riflessione è fondamento essenziale del moderno pensiero liberale. E mi riferisco a John Stuart Mill quando afferma e argomenta il principio, secondo il quale “su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano”. Sostenere questo significa, forse, coltivare un’idea assoluta dell’autodeterminazione? Il senatore Compagna sbaglia se ritiene che io indulga a una metafisica dell’indipendenza individuale o a una sorta di umanitarismo estremo, egotico e narcisistico, che si fa ubris. Niente affatto. E non sono tentato dalla vanità dell’autosufficienza o della superbia superomistica del soggettivismo eroico e strenuo. Penso e sento l’esatto contrario. Proprio perché ho una concezione tragica dell’esistenza e un’idea dell’essere umano come creatura imperfetta e vulnerabile, non posso che nutrire un’antropologia pessimista, dove il combattimento umano nelle circostanze del fine vita deve misurarsi con due limiti profondi: l’impotenza, oltre una certa soglia, dei trattamenti terapeutici, delle scienze mediche e delle biotecnologie, da un lato; e l’inadeguatezza di quella che possiamo chiamare la “consolazione umana”, dall’altro.

    

Dunque, la categoria di autodeterminazione non va considerata come un concetto astratto. Va inserita al contrario nel contesto storico-sociale e nella dimensione dell’esperienza umana e delle biografie individuali. Autodeterminazione, quindi, come risorsa della vita di relazione e non certo come negazione di essa.

    

Questo è un punto essenziale. La “solitudine del morente” – ecco la mia antropologia pessimista – è mitigabile, ma è un dato che non può essere eluso. La solitudine del morente è una sconfitta inevitabile. La mia idea (e la mia speranza) di fine vita, immagina una rete di relazioni attive e “calde” fino all’ultimo. Una possibilità, cioè, di relazioni, rapporti, scambi che attribuiscano significato e qualità – pur esile, esilissima – alla sopravvivenza anche in condizioni estreme. Ma, qui sta il nodo più crudele, anche questa forma di vita – che è certamente “degna di essere vissuta” – può esaurirsi. E in assenza di ogni capacità di comunicazione e di interazione, può perdere senso. Fino a quell’annichilimento del corpo e dello spirito prodotto dal dolore non lenibile e dalle sofferenze non sedabili. E’ qui, è allora, che prevale il peso intollerabile delle “cose ultime”; che si esaurisce la possibilità della “consolazione”; e che il significato del vivere e dello stesso sopravvivere si consuma. E’ in questa condizione finale, quando la rete dei rapporti familiari, amicali, personali e sociali vacilla e non regge più, e non offre né conforto né consiglio, è in questo stato di smarrimento che si pone la domanda inesorabile: in ultima istanza, chi decide per me? E la risposta non può che essere una: io, e solo io. E tragicamente, solo io.

   

Se questo è vero, il principio dell’autodeterminazione, per chi lo voglia rivendicare, non può essere contestato. Da questo principio irrinunciabile discende la concezione stessa di Disposizioni anticipate di trattamento e di “testamento biologico” e i suoi corollari e i suoi vincoli, compresa la figura del fiduciario.

  

Di tutto questo stiamo parlando, dunque, quando parliamo di “testamento biologico”. Dobbiamo esserne consapevoli.

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