Il manifesto di ProVita

La censura del cartellone contro l'aborto ci ha resi simili all'Iran

Giuliano Ferrara

A Roma hanno rimosso una gigantografia ProVita come nella teodemocrazia iraniana che cancella le mammelle della Lupa

Il lupo e l’agnello, no, la lupa e il feto. Che poi io feto lo dico quasi mai, bambino si deve dire. Allora. A Teheran hanno rimosso le mammelle della Lupa di Romolo e ovviamente ormai Remolo, nella città dei gemelli gruppazzi di dementi che interpretano probabilmente la volontà di una maggioranza di indementiti hanno fatto rimuovere un cartellone bello grande con su un bambino-feto nella pancia della madre, non una lupa: #rimozioni, così ho tuìttato. E che dovevo fare? Di rimozioni si tratta. Di sesso, di maternità, di nascite e allattamenti, reali o mancati.

  

Un collega Twitter ha postato un vecchio Guzzanti che dieci anni fa, in campagna contro l’aborto, non avevo avuto il tempo di vedere. Corrado dice che sono confuso, che non so cosa voglio, che la moratoria contro la pena di morte è una cosa, l’aborto un’altra, e che vabbè, non voglio la galera per le donne, ma non voglio nemmeno l’aborto, ma che cosa voglio? La questione sembra complicata, a me sembrava semplice, a me e altri centotrentamila che votarono nel 2008 contro l’aborto, e alle donne e agli uomini con cui feci compagnia nella lista presentata in quasi tutte le circoscrizioni della Camera alle elezioni, tra uova, bombe carta e linciaggi vari, con un insuccesso finale che definirei assolutamente perfetto.

  

Non so come la pensino i promotori del cartellone, o forse posso intuirlo, non ho mai usato i feti cosiddetti, preferivo le parole, ma in effetti quel cartellone è occasione di parola almeno quanto è occasione di censura l’infilata di mammelle della Lupa a Teheran, allattare bambini a Teheran. Parola semplice. In galera per un atto di autolesionismo e di autodifesa e di libertà a danno di sé stessi e degli altri né la donna né il medico né alcun altro ci deve andare. In paradiso per avvenuta tragedia & sofferenza nemmeno. Tra quella galera mancata e quel paradiso mancato c’è il nostro inferno, fiammeggiante ed evidente per chi voglia ragionare.

  

L’aborto è un omicidio, il più perfetto dei delitti che toglie tutta la vita, dal concepimento, a un essere umano nascente. Lo si pratica in forme varie da sempre, come un tormento e una liberazione. L’aborto non è femminile, non esprime la libertà femminile, tanto è vero che in Asia si sono abortite, e adesso mancano secondo Amartya Sen a centinaia di milioni, proprio le femmine, improduttive a confronto dei maschi. L’aborto è maschio, almeno quanto femmina, perché il concepimento arriva da un’unione di coppia eterosessuale, e deresponsabilizza quello che ci mette del suo seme. L’aborto non è personale, ecco perché la galera per infrazione penale personale è fuori discussione, è culturale, è sociale, è il linguaggio decisivo della contemporaneità, sotto legislazioni permissive per norma o per sentenza che hanno fatto da spartiacque: prima era un dramma privato fuori della socialità diffusa, poi è diventato inevitabilmente e dico inevitabilmente una licenza pubblica di comportarsi a quel modo. Infine è diventato un diritto, una retorica del diritto e della libertà, che alle radici del mondo moderno era sempre stata opposta come diritto alla vita a ogni immagine e pratica di morte. Ma non è che così è scomparso nel suo senso e criterio, appunto, di vita e di morte. Si è normalizzato, è diventato un’abitudine davanti alla quale siamo moralmente sordi. E alla fine con la Ru486 e altri ritrovati si è anche riclandestinizzato, realizzandosi insieme come licenza pubblica e veleno privato. Un capolavoro. 

  

Ci sono stati nel frattempo i progressi della civiltà e della scienza genetica, sappiamo tutto, fotografiamo tutto, registriamo il dolore della creatura aspirata o raschiata o avvelenata, possiamo definirla sulla scala delle nostre conoscenze della struttura cromosomica, ascoltarla. Forse non in nome della chiesa, che non c’entrava e spesso mi ha chiuso le porte in faccia, nonostante una solidarietà papale e ruiniana andata fin che era possibile al limite del possibile, forse in nome della laicità, della conoscenza appunto, dei Lumi, o quello che volete voi, ci fu in quell’occasione della campagna laica contro l’aborto una consapevolezza, un’ispirazione, diciamo così. I poteri pubblici e il potere culturale devono organizzare la deterrenza contro l’aborto, impedire che i bambini uccisi siano chiamati feti e scartati come “rifiuti ospedalieri”, la dizione di prammatica stampigliata sulle borse che contengono il grumo di materia inerte di cui parlava la Bonino, quella contro la pena di morte, e ciascuno faccia quello che può ma tutti facciano quello che devono, nel pubblico e nel privato, e i Comuni invece di rimuovere i cartelloni pro life organizzino dei cimiteri decenti per le vittime dei raschiamenti e delle aspirazioni, su, forza, si muovano. Si chiamò moratoria. Ieri c’era quel cartellone, averlo rimosso ci ha fatti simili alla capitale della teodemocrazia iraniana. Non mi sembra così complicato, sono sicuro che anche Corrado Guzzanti condividerebbe la spiegazione.

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.