Il caso Alfie e la differenza scomparsa tra persona umana e mera vita biologica
La polizia a difesa dei medici, la chiesa locale si barcamena
Roma. Mentre la polizia inglese fa sapere che sta passando al vaglio i messaggi offensivi postati sui social contro l’Alder Hey Hospital di Liverpool, reo di non lasciare neppure tornare a casa Alfie Evans (dopo l’ennesimo no dei giudici al trasferimento in Italia o Germania è questa la nuova richiesta della famiglia, avanzata nel corso di un incontro di Thomas, il padre, con i medici) e che è pronta a eliminare i pensieri con hashtag #AlfieEvans lesivi della reputazione (già di per sé non eccelsa) del nosocomio pediatrico, il confronto si sposta sul piano meramente etico. Non sono pochi coloro che in questi giorni azzardano un paragone con la situazione di Vincent Lambert, il quarantunenne francese da dieci anni in stato vegetativo, ricoverato all’ospedale di Reims. E’ stato il Papa ad accomunare le due vicende, ricordando che “l’unico padrone della vita dall’inizio alla fine naturale è Dio. Il nostro dovere è fare di tutto per custodire la vita”.
A sostegno di Lambert si sono mossi settanta medici, che hanno firmato un appello pubblicato nei giorni scorsi sul Figaro, gesto apprezzato dal neo arcivescovo di Parigi, il medico esperto di bioetica Michel Aupetit. Lo stesso che tempo fa disse che ormai “si è fatta a pezzi la differenza tra una persona umana e una vita biologica”. E’ il trionfo di quella cultura dello scarto di cui Bergoglio parla un giorno sì e l’altro pure, il malato da eliminare come un rifiuto inutile, che non serve più a nulla. E’ un problema etico, soprattutto, che bene ha messo in evidenza anche il cardiochirurgo infantile Nikolaus Haas, il luminare che ha potuto visitare l’anno scorso Alfie Evans, producendone anche una storia clinica servita poi nelle varie fasi processuali conclusesi mercoledì con il divieto d’espatrio, ché il best interest del minore è di continuare con il piano sanitario predisposto dai medici dell’Alder Hey.
Intervistato dalla Welt, Haas ha ricordato che in ogni altro paese occidentale la vicenda si sarebbe già conclusa, con il bambino trasferito ovunque i genitori avessero voluto da tempo. Ma siccome Alfie è ricoverato in un ospedale britannico ed è cittadino britannico, questo non avviene. L’Alder Hey “ha chiaramente fatto capire di non volere che un altro medico visiti il bambino”. L’aiuto primario di Haas, mandato a suo tempo a Liverpool, fu presentato come “un amico” e quando i vertici dell’ospedale si accorsero che era un medico, “si rifiutarono di parlargli”. Già Mariella Enoc, presidente del Bambino Gesù di Roma, intervistata mercoledì dal Corriere della Sera, aveva confermato implicitamente la cosa, quando sottolineava che di malati nel suo ospedale ne arrivano a centinaia da ogni luogo d’Europa, tranne che dalla Gran Bretagna. Un motivo ci sarà. Secondo il prof. Haas, la ragione è che il sistema sanitario nazionale è considerato in patria “una vacca sacra e quel che dicono i medici è giusto e non si discute, non è ammesso il ricorso a una seconda opinione. E poi il trattamento di un paziente di questo tipo all’esterno della clinica costa circa tre volte quanto costerebbe all’interno. Se si crea un precedente, si scatena una valanga che comporta costi notevoli”. Nessuna obiezione, nessun secondo parere. Neanche se a richiederlo è la famiglia.
Ed è in questo sistema che si muove con chiara difficoltà anche la chiesa d’Inghilterra, al centro di diverse critiche per il silenzio sul caso di Alfie. Il vescovo di Liverpool, mons. Malcolm McMahon, ha ripetutamente sottolineato il fatto che l’ospedale pediatrico “ha fatto tutto quanto umanamente possibile” per il bambino e che anche “in Gran Bretagna sia il sistema medico sia quello legale si basano sulla compassione e la protezione dei diritti del singolo bambino”. Equilibrismo pastorale, si potrebbe definire, quello del presule, ma dovuto (in parte) anche alla spada di Damocle che da tempo pende sulla chiesa cattolica britannica, che potrebbe perdere i cappellani ospedalieri perché rei “di fare propaganda” antigender e di essere schierati contro l’aborto. Intanto ieri il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, dopo un colloquio con il collega di Liverpool, ha provveduto a richiamare a Londra padre Gabriele Brusco, il sacerdote italiano che aveva amministrato l’unzione degli infermi ad Alfie.
L’assistenza spirituale al bambino sarà fornita dal cappellano dell’Alder Hey, che però nelle scorse settimane si era sempre negato. Un profilo sui generis, quello della Conferenza episcopale inglese, che cozza con quello dei battaglieri vescovi americani che – memori delle vecchie battaglie sui valori cosiddetti non negoziabili – si sono schierati in forze a sostegno del trasferimento del bambino dalla struttura ospedaliera di Liverpool. Ieri, dopo le recenti esternazioni di mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, ha parlato il patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, con una nota ufficiale che sgombra il campo dagli eccessi da tifoseria curvaiola (che immancabilmente si sono visti anche in queste settimane) e va dritta al cuore della questione: “La vicenda è molto triste perché chiama in causa la civiltà e la cultura, il diritto e la giustizia, le istanze etiche attorno a cui si fonda la vita di un intero paese, di molti popoli, di una nazione e di un intero continente – l’Europa – che purtroppo, ancora una volta, ci lascia profondamente delusi per come non riesce a trattare una questione delicatissima e così lancinante”, ha scritto Moraglia. “Anche chi non è credente – prosegue il patriarca – può convenire sul fatto che nessun potere umano (politico) può arrogarsi il diritto di impedire che altri stati e istituzioni scientifiche riconosciute come eccellenze – nel campo della ricerca e della cura medica – si facciano carico del piccolo Alfie e intervengano in luogo di chi non ha più nulla da dire o da dare. Senza accanimento terapeutico, senza cioè trattamenti sproporzionati, ma anche senza abbandono terapeutico, cioè senza mai venire meno al dovere-diritto di prendersi cura e di accompagnare la persona malata e i suoi familiari con alta professionalità, con grande umanità e con… amore, veramente disinteressato e non ideologico”.
In serata, ai microfoni del telegiornale di Tv2000, ha parlato Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità: “In Italia ce ne sono tanti di questi casi però nessuno diventa così eclatante proprio perché i medici e i familiari discutono. I medici spiegano ai familiari che in qualche modo capiscono e partecipano alla decisione. Non puoi impedire a un cittadino, secondo gli accordi di Maastricht e la direttiva 24, di andare a cercare una cura all’estero. Casomai non gliela rimborsi ma non puoi impedire la libera circolazione. Credo – ha aggiunto – che dal punto vista tecnico-scientifico i colleghi inglesi siano bravissimi e probabilmente hanno fatto il loro lavoro. Le malattie sono sempre curabili nel senso che ci possono essere delle cure palliative, si può accompagnare il paziente verso la morte ma lo si può fare in maniera dolce, non in maniera così traumatica staccando un respiratore e lasciando che il bambino muoia praticamente senza assistenza”.
A conferma di quanto diceva alla Welt il prof. Haas, anche per Ricciardi decisivo è il fatto che “loro hanno un’etica diversa, che è quella del cosiddetto best interest, mentre invece noi abbiamo un’etica più umana. Loro sostanzialmente ritengono che un trattamento non vada assolutamente erogato né pubblicamente né privatamente quando il migliore interesse del paziente è negato. Loro ritengono che questo bambino debba morire e che qualsiasi prolungamento della vita non sia nel suo interesse”.