Una manifestazione per il No al referendum (foto LaPresse)

La campagna d'Irlanda sull'aborto

Matteo Matzuzzi

Oggi il referendum per cancellare l’Ottavo emendamento costituzionale che vieta l’interruzione di gravidanza. Comunque vada, si farà la storia

Roma. Attraversare da un capo all’altro l’Irlanda, fermandosi nelle fattorie e nelle isolate case dell’entroterra, spiegando perché sia un bene mantenere in vigore l’Ottavo emendamento costituzionale che vieta l’aborto, è utile (si vota oggi, dalle 7 alle 22). Gli analisti, profondi conoscitori del tessuto sociale locale, l’avevano detto già settimane fa: più delle campagne sul web e dei cartelloni affissi qua e là lungo le strade, sui muri intonacati dei palazzi o sui pali della luce, con gli irlandesi bisogna parlarci faccia a faccia.

 

Sul tema sono “profondamente conservatori”, diceva la senatrice di centrodestra (ma favorevole all’aborto) Catherine Noone, che non s’azzarda a fare previsioni su come andrà. I sondaggi, gli ultimi a essere diffusi, fotografavano ancora un chiaro margine favorevole al Sì, ma in calo di dieci punti dall’inizio dell’anno. Però il vis-à-vis da solo non basta, la gente spende ore su internet, è lì che si informa ed è lì che guarda pure i messaggi pubblicitari. Il fatto è che se Facebook ha deciso di consentire la pubblicazione di inserzioni pubblicitarie e propagandistiche solo a soggetti con sede in Irlanda, Google ha optato per il ban totale; a essere vietata è ogni pubblicità che abbia a che fare con il referendum irlandese. Troppo alto il rischio di ingerenze straniere (americane e/o russe), che difficilmente potrebbero essere controllate. Meglio evitare il corollario di polemiche postume che già s’intravede all’orizzonte, qualunque sarà l’esito del voto. Faccenda complicata quindi, soprattutto per chi ha la necessità vitale di rimontare posizioni, di guadagnare consensi catturando l’attenzione degli indecisi – che sono tanti, più del 15 per cento.

 

Davanti ai paletti e alle varie normative – l’Irlanda, secondo il vecchio adagio, sarà pure indietro di trent’anni rispetto al resto dell’occidente, ma in fatto di cavilli compete bene con il meglio della burocrazia europea – l’unica strada consisteva nell’aggirare il blocco. Le varie organizzazioni in campo per il No hanno infatti promosso le inserzioni su piattaforme alternative di pubblicità, capaci di raggiungere non solo i siti internet di grandi testate (Guardian, Washington Post, Atlantic), ma anche siti dedicati al lifestyle e ai giochi per smartphone. Con l’obiettivo dichiarato di allargare la platea dei potenziali sostenitori. Il problema è che le tecnologie usate per veicolare il messaggio e addirittura i codici siano gli stessi di Google, che infatti ha preso subito le distanze ricordando di aver proibito ufficialmente qualunque inserzione che abbia a tema il referendum odierno. Controllare tutto è impossibile, i giornali si limitano ad annunciare un rafforzamento della sorveglianza, ma tracciare ogni tipo di annuncio che appare sul web è pura utopia. Craig Dwyer, cofondatore della Referendum transparency initiative ci ha provato: ne ha scovate circa mille, ma ammette che si tratta solo d’una piccola parte. Il fatto è che – dice al Guardian – la legge elettorale irlandese è incompatibile con la moderna campagna politica via web. Basta registrarsi, ed è fatta. Le spese online non sono controllate da nessuno. Il pilatesco provvedimento di Google, aggiunge Dwyer, non serve a nulla: semplicemente, gli inserzionisti hanno usato piattaforme alternative. Che queste mosse possano incidere sul risultato elettorale – che comunque vada segnerà una tacca di rilievo nello scorrere della storia –, condizionando l’avvocato di Dublino piuttosto che l’allevatore di Killahornia, lo si capirà solo a urne chiuse.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.