Si può essere contro l'aborto, e un po' relativisti
Niente sicari, ma resta la nostra peggiore sordità morale. Perché uno stato di diritto non può trasformare in oscurantismo il doveroso sostegno alla maternità
Quella storia del sicario che uccide per risolvere un problema, insomma la tirata contro l’aborto di Papa Francesco, ha comprensibilmente offeso i medici non obiettori, e in genere coloro che credono nel dovere deontologico di fornire assistenza pubblica a chi intenda sopprimere una vita in gestazione. Si capisce, sull’aborto è scontro tra assoluti. C’è l’obiezione di coscienza tra i medici, insuperabile, ingiudicabile, e c’è l’attiva disponibilità “terapeutica”, anche quella insuperabile, ingiudicabile se non secondo i parametri della legge, a fornire un servizio pubblico nato per sradicare la clandestinità o proteggere la privacy del cittadino (sentenza Roe vs Wade della Corte suprema americana, 1973) con il suo corteggio di dolore, di paura, di vergogna sociale. Mandante o sicario non sono i termini giusti. Ma questo non toglie che interruzione volontaria di gravidanza è “un modo di dire”, come ha aggiunto il Papa, perché si tratta di un omicidio legalizzato. Nell’embrione c’è già tutto quello che sei, saresti o sarai se ti consentissero di svilupparti e nascere, e nel feto a diversi gradi di sviluppo quello che sei, saresti o sarai lo si vede a occhio nudo, nei dettagli fotografici. E’ grottesco che la questione venga elusa o che se ne continui a discutere eufemisticamente, sebbene l’omicidio legale scambiato con la libertà procreativa, un altro valore assoluto, non abbia mandanti o esecutori sicari: è come per la pena di morte, di cui non è responsabile il verdetto o chi lo pronuncia o lo esegue, ma la legge, dunque la cultura, il linguaggio della comune convivenza nell’orizzonte dei diritti, la sicurezza sociale o la giustizia nel caso di un crimine, la libertà di procreare o no dopo aver concepito nel caso dell’aborto. Con l’offesa a un altro e primordiale diritto, quello alla vita.
Il caso di Verona, un voto di sostegno alle associazioni che lavorano per prevenire, evitare, gli aborti, e non un voto per ripristinare la punizione penale delle donne che abortiscono o dei medici che le aiutano a abortire, ricorda che non ci sono soltanto le campagne pro life assolutiste, verso le quali è chiara l’inclinazione di esponenti della nuova ondata familista oggi al governo, che fa eco alle declamazioni di Trump e del suo vice, degli evangelici eccetera: al centro di queste campagne sta la legalità contestata dell’aborto e la necessità di ripristinare in varie forme la sua interdizione a sfondo penale. Ci sono anche le campagne relativiste, in senso storico e non etico, di chi obietta alla sordità morale verso la trasformazione dell’aborto in diritto privato della persona e della donna in particolare, un atto appunto di libertà procreativa le cui conseguenze materiali, sociali e culturali non importano. Sarebbe meraviglioso, eccellente, se nascesse una convergenza intelligente, umana, trasversale, su questo punto.
Si può pensare all’aborto non come a un’espressione di libertà o di incomprimibile diritto e nemmeno come a un atto criminale bisognoso di sanzione penale. Si può pensare all’aborto come a una circostanza grave, decisiva per giudicare la solidità morale di un’epoca e di una società, da evitare e prevenire con politiche pubbliche attive. Paola Bonzi, che dirige alla Mangiagalli un centro benemerito di dissuasione e aiuto, ha puntato con successo alla prosecuzione di gravidanze indesiderate attraverso il dialogo e le misure di aiuto collegate: dovrebbe essere considerata almeno sullo stesso piano di medici come Silvio Viale, che operano per facilitare, sulla base del criterio del servizio pubblico e legale, criterio che ha una sua base etica, le “interruzioni volontarie di gravidanza”.
Di una campagna antiabortista relativista fa parte per esempio l’idea che una gestazione portata a compimento, con affidamento in adozione del bambino non voluto, non è un ritorno al Medioevo, secondo lo slogan privo di misura etica e storica oggi in voga, perché la ruota nei conventi era umanamente meglio della soppressione seriale dei feti. Oppure l’idea, non so perché, o meglio so bene perché, considerata con tanto scandalo del rispetto dovuto a chi per ragioni di circostanza o di volontà insuperabili sia stato abortito, impedito di nascere: tra seppellire un feto con nome e cognome e buttarlo come rifiuto ospedaliero c’è una differenza, non è necessario essere moralmente troppo sottili per capirlo. Lo stato, infine, concentra le sue risorse nell’assistenza di ogni genere all’aborto, che fa catena con una idea contraccettiva e abortiva estesa fino alla Ru486, che privatizza in prospettiva l’aborto e lo rende di nuovo privato e clandestino; potrebbe, anzi dovrebbe, investire molto nella prevenzione, invece, e in una azione di persuasione e sostegno materiale alla maternità che non ha nulla dello stato etico, non invade il campo delle libertà, se non per la parte in cui la tua libertà nega quella di un altro, il che è sostanza di ciò che comunemente si chiama stato di diritto.
L’aborto non è femminile, è maschio, è sociale, predica e pratica la liberazione della donna attraverso la liberazione dal feto o dal nascituro perché questo risolve una quantità di problemi materiali e sociali generati da scelte di amore o di piacere rinnegate o rovesciate a spese dell’essere umano concepito. L’aborto è tragicamente maggioritario, è diventato un’abitudine confusa e autolesionista, oltre che un atto contro la vita umana collegato in vario modo a soluzioni molto controverse di ingegneria biologica, e non sopporta obiezioni pratiche né di dottrina né di senso comune laico. Mantenere aperta questa contraddizione, questa ferita, e favorire la convergenza relativista in difesa di un principio assoluto, è l’unico modo per rispettare sul serio, e per tutti, i diritti individuali, con una scelta di vero universalismo della cultura e del diritto.