Demografia e conti pubblici. Così si aggrava la crisi dei “debiti gemelli”
Una veduta di corto respiro per troppo tempo ha dominato sia il confronto sulla politica economica sia quello sulla natalità
[Pubblichiamo uno stralcio di “Italiani poca gente” il libro di Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete, con prefazione di Piero Angela, appena pubblicato da Luiss University Presse (244 pp. 14 euro). Antonio Golini è professore emerito alla Sapienza dove ha insegnato per oltre cinquant'anni Demografia, insegna Sviluppo sostenibile alla Luiss, è Accademico dei Lincei, Marco Valerio Lo Prete, già vicedirettore del Foglio, è giornalista del Tg1]
Nel nostro paese, il primo al mondo a registrare il sorpasso degli over 65 sugli under 15, gli over 65 costituiscono più del 22 per cento della popolazione, rispetto al 19 per cento nel resto dell’Unione europea. L’Italia, inoltre, è uno dei paesi con la più bassa incidenza delle nuove generazioni: la quota delle persone fino a 25 anni dal 1926 al 2017 è scesa dal 49 per cento a poco più del 23 per cento. Di conseguenza l’Italia, divenuta il secondo paese più vecchio del pianeta, ha contratto un “debito demografico” nei confronti delle generazioni future. Questo debito è misurato dai demografi con l’“indice di vecchiaia”, cioè il numero di persone con più di 65 anni di età come proporzione rispetto a quelle con meno di 15 anni di età. L’indice in questione è aumentato dal 16 per cento del 1871 al 62 per cento del 1981; nel 2001 è balzato al 132 per cento, poi al 150 per cento dieci anni dopo. Al 1° gennaio 2018, in Italia ci sono 168,7 anziani ogni 100 giovanissimi; tra vent’anni diventeranno 265 ogni 10018.
Da qualche lustro, nel nostro paese, siamo abituati ad associare percentuali così abnormi e squilibri tanto forti a un altro debito che di recente ha avuto maggiore copertura mediatica: il debito pubblico, oggi superiore al 130 per cento del pil italiano. Questo debito è attualmente riconosciuto come uno dei fardelli più pesanti che grava sulle spalle della nostra economia, il convitato di pietra per ogni politico sinceramente riformatore. Esiste un istruttivo parallelismo tra debito demografico e debito pubblico in Italia. Innanzitutto i due debiti hanno avuto una dinamica temporale simile. Entrambi iniziano a essere accumulati negli anni 70, poi sempre più rapidamente fino all’inizio degli anni 90 quando sembra raggiunto un punto di rottura: sul fronte fiscale, nel biennio 1992-’93 assistiamo a una crisi finanziaria dovuta alla riluttanza mostrata dagli investitori nell’acquistare i nostri titoli di stato; sul fronte demografico, sempre negli stessi anni, battiamo ogni record mondiale di bassa fecondità.
C’è un’altra similitudine che caratterizza gli anni dell’accumulazione dei debiti gemelli. A lungo, nel dibattito pubblico, i due problemi sono stati di fatto negati in ossequio a una “veduta corta” che ha dominato sia il confronto sulla politica economica sia quello su natalità e demografia. Per decenni, mentre il debito pubblico aumentava, mentre quindi lo stato spendeva più di quanto si potesse permettere, pochissime e isolatissime voci hanno sollevato il problema. Politici e burocrati erano di volta in volta ossessionati dalla Legge Finanziaria dell’anno in corso, indaffarati nella scelta di quale settore produttivo sussidiare o di quale gruppo di pressione favorire nell’immediato grazie ai soldi del contribuente, tanto poi – si è sempre detto – “l’anno prossimo si vedrà”. Un modus operandi che non poteva che andare a discapito di una equilibrata visione d’insieme. Il prevalere di un approccio di corto (o cortissimo) respiro è stato tanto più evidente e tanto più dannoso nelle scelte di politica demografica. Anche solo per svolgere in maniera seria l’analisi dell’evoluzione di una popolazione, infatti, occorre ragionare in termini di 80-100 anni, cioè quanto dura una generazione, considerando pure le relazioni fra generazioni diverse (nonni-genitori-figli) e le interazioni fra domanda economica e domanda demografica. Ma è difficile rinvenire questa visione di lungo termine fuori dalla ristretta cerchia dei demografi, figurarsi poi in una classe dirigente inchiodata all’hic et nunc.
La “veduta corta” che caratterizza sia il dibattito sul debito pubblico sia quello sul debito demografico, inoltre, è rivelatoria della scarsa o nulla considerazione che in Italia abbiamo della “giustizia intergenerazionale”, cioè dell’idea che si debbano soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro. A tal proposito si può anzi sostenere che i due debiti, accrescendo entrambi il tasso di ingiustizia intergenerazionale, interagiscano fra loro e si alimentino ulteriormente l’uno con l’altro. In che modo? Il meccanismo di interazione più noto e studiato, che approfondiremo successivamente, è quello per cui una denatalità e un invecchiamento pronunciati generano aggravi di costo per il welfare state, aggravi ai quali alcuni governi tentano di fare fronte con la emissione di altro debito sotto forma di titoli di stato. Non solo. Nella disciplina economica cresce il numero di studiosi che analizzano il meccanismo di trasmissione inverso, in base al quale il debito pubblico alimenta il debito demografico. Secondo recenti analisi, infatti, più delle crisi economiche congiunturali, sulle intenzioni di procreare incide l’incertezza economica futura, ingigantita dai debiti pubblici monstre, o meglio dalla instabilità finanziaria e dalla rapacità fiscale dei governi che tali debiti pubblici causano. Infine dal punto di vista teorico è ipotizzabile che nel lungo termine, dunque nell’arco di qualche generazione e in assenza di una inversione di rotta nell’evoluzione della nostra popolazione, la crisi demografica assottigli fino all’insignificanza le future generazioni, al punto da far venire meno i beneficiati stessi della giustizia intergenerazionale.
Mi spiego. Per calmierare la tendenza degli stati a indebitarsi, si utilizza spesso la motivazione per la quale il debito di oggi è un peso negativo che si lascia sulle spalle delle generazioni di domani. Ma se un numero crescente di italiani non sarà più legato a una propria futura generazione di figli, nipoti e altri discendenti, se dunque le future generazioni saranno sempre meno folte delle attuali, non è forse ipotizzabile che si attenui ancora di più il sentimento di solidarietà intergenerazionale? Detto in altri termini: se il peso specifico delle generazioni presenti aumenta a dismisura rispetto a quello sempre minore delle generazioni future, quanto sarà efficace il monito in base al quale il debito pubblico equivale a tasse aggiuntive per gli Italiani che verranno dopo di noi? Risultato di tutto ciò: oggi debito pubblico e debito demografico sembrano essere debiti gemelli che ipotecano il nostro futuro e, come appare ormai evidente, anche una parte importante del nostro presente.