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Italiani poca gente

Sergio Belardinelli

La crisi demografica italiana raccontata da Antonio Golini, lo studioso che per primo la individuò. Le culle vuote tra nichilismo culturale, impatto economico e libertà negata (vedi Hannah Arendt)

All’indomani dell’unità d’Italia, nel 1861, allorché venne realizzato il primo censimento della popolazione, risultavano presenti sul territorio nazionale d’allora circa 22 milioni di italiani. Di questi poco più della metà aveva meno di 25 anni, uno su tre ne aveva meno di 15 e soltanto uno su 25 superava la soglia del sessantacinquesimo anno d’età. Si trattava di una popolazione caratterizzata da alti tassi di natalità (circa quattro volte superiori a quelli attuali) e da altrettanto alti livelli di mortalità: la durata media della vita superava di poco i trent’anni e quasi la metà dei decessi riguardava bambini al di sotto dei sei anni. Nel corso del Ventesimo secolo anche l’Italia compie la sua transizione demografica; i tassi di natalità e quelli di mortalità si abbassano; lo scenario della popolazione muta radicalmente; dopo il boom economico e demografico degli anni Sessanta, quando una donna metteva al mondo in media 2,7 figli (circa un milione di nati nel 1964), l’Italia conquista nel 1995 il primato, invero piuttosto triste, del paese col più basso tasso di natalità al mondo: 1,19 figli per donna. Una vera e propria glaciazione demografica, che dura in gran parte ancora oggi e che fa del nostro paese un interessante caso di studio per tutti i demografi del mondo.

 

Nel 1995 l’Italia conquista il primato, invero piuttosto triste, del paese col più basso tasso di natalità al mondo: 1,19 figli per donna

Per chi fosse interessato a comprendere il fenomeno di cui stiamo parlando, sia nei suoi aspetti numerici, sia in quelli socio-culturali, è appena uscito in libreria per la Luiss University Press un libro da non perdere: Italiani poca gente. Il paese ai tempi del malessere demografico. Si tratta di un libro-intervista realizzato da un bravissimo giornalista, Marco Valerio Lo Prete, e da uno dei maestri della demografia italiana, Antonio Golini, tra i cui molti meriti c’è quello di essere stato tra i primi a richiamare l’attenzione sul rischio di “implosione” demografica del nostro paese, proprio quando la cultura dominante guardava soprattutto ai rischi dell’“esplosione” demografica, incoraggiata in questo dal famoso libro del biologo americano Paul Ehrlich sulla “population Bomb”, uscito nel 1968, e dai documenti del Club di Roma fondato nello stesso anno da Aurelio Peccei.

 

Per avere un’idea del “malessere demografico” che affligge l’Italia odierna, giova forse riferire alcuni dati. Nel 2017 abbiamo registrato 458 mila nuovi nati e 649 mila morti; per garantire una certa stabilità demografica sarebbe necessario che ogni donna mettesse al mondo almeno due figli, ma la media attuale delle donne italiane è di circa 1,4. Nel 1980 l’Italia aveva circa 17 milioni di under 20 e circa 10 milioni di over 60; nel 2015 il rapporto si è invertito: abbiamo 10 milioni di under 20 e oltre 17 milioni di over 60. Ancora: l’Italia è il primo paese al mondo a registrare il sorpasso degli over 65 sugli under 15; gli over 65 costituiscono più del 22 per cento della popolazione italiana, rispetto al 19 per cento nel resto dell’Unione europea. Come ci dicono i nostri autori, “l’Italia, inoltre, è uno dei paesi con la più bassa incidenza delle nuove generazioni: la quota delle persone fino a 25 anni dal 1926 al 2017 è scesa dal 49 per cento a poco più del 23 per cento. Di conseguenza l’Italia, divenuta il secondo Paese più vecchio del pianeta, ha contratto un ‘debito demografico’ nei confronti delle generazioni future. Questo debito è misurato dai demografi con l’‘indice di vecchiaia’, cioè il numero di persone con più di 65 anni di età come proporzione rispetto a quelle con meno di 15 anni d’età. L’indice in questione è aumentato dal 16 per cento del 1871 al 62 per cento del 1981; nel 2001 è balzato al 132 per cento, poi al 150 per cento dieci anni dopo. Al 1° gennaio 2018, in Italia ci sono 168,7 anziani ogni 100 giovanissimi; tra vent’anni diventeranno 265 ogni 100”.

 

Dietro al nostro “malessere demografico” si nasconde un malessere culturale: scarso senso di appartenenza a una comunità

Sono dati a dir poco allarmanti. Oltretutto, come mostra assai bene questo libro, essi impattano inesorabilmente su gran parte dei problemi del nostro Paese. Innovazione, imprenditorialità, ridimensionamento della forza lavoro, insostenibilità del sistema previdenziale, necessità di nuovi sistemi formativi, immigrazione, depauperamento del capitale umano, contraccolpi politici: su tutti questi fronti incombe inesorabilmente il nostro “malessere demografico”. Faccio soltanto un paio d’esempi. Allo stato attuale abbiamo due pensionati ogni tre persone che lavorano, e nel 2045 il rapporto sarà uno a uno; che cosa succederà al nostro sistema pensionistico e al sistema di welfare in generale? Oppure: il rapporto tra gli abitanti dell’Europa e quelli dell’Africa è oggi uno a due; si calcola che nel 2050 esso sarà di uno a cinque; quali conseguenze avrà tutto questo sull’immigrazione? Considerato il modo per lo più ideologico e strumentale col quale la politica e l’opinione pubblica discutono di questi problemi c’è poco da stare allegri.

 

In ogni caso, e questo mi sembra uno dei messaggi più importanti del libro, la demografia non rappresenta un “destino”; fronteggiare l’invecchiamento della nostra popolazione non appare come una missione impossibile. Nell’ultimo capitolo del libro vengono suggerite alcune proposte molto interessanti in tal senso. Ma soprattutto ci viene detto che dietro al nostro “malessere demografico” si nasconde un malessere culturale: scarso senso di appartenenza a una comunità, con le relative responsabilità che ciò comporta sia nei confronti di noi stessi che degli altri; scarsa consapevolezza del fatto che i figli non sono soltanto un bene per i genitori, ma sono anche un grande capitale sociale, del quale la società dovrebbe in qualche modo dimostrarsi consapevole in termini di promozione e di sostegno; infine scarsa fiducia nei confronti del futuro e, aggiungo io, nei confronti della nostra libertà. Su quest’ultimo punto vorrei fare una considerazione.

 

Nel 1980 l’Italia aveva circa 17 milioni di under 20 e circa 10 milioni di over 60; nel 2015 il rapporto si è invertito

Se la nostra libertà, tra le altre cose, è “novità”, capacità di incominciare qualcosa che diversamente non incomincerebbe mai, rompendo così ogni volta la routine della nostra vita sociale e individuale, allora il primo incominciamento di qualcosa di radicalmente “nuovo”, imprevisto (non programmabile!) siamo proprio noi stessi; è il nostro essere venuti al mondo, la nostra nascita, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi. Questa almeno era l’idea di Hannah Arendt, l’unico pensatore, che io sappia, ad aver cercato di saldare insieme libertà e natalità. La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni – la libertà e la natalità – ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme la fiducia, la speranza nel futuro. “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, ‘naturale’ rovina – scrive Hannah Arendt in Vita Activa, uno dei suoi libri più noti – è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. E’ in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana che l’antichità greca ignorò completamente. E’ questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.

 

Quando una società, come la nostra, non mette più al mondo figli si consuma una tragedia anche simbolica. Arendt l’aveva capito

Si tratta di un brano straordinario che commento ormai da oltre trent’anni e che ogni volta mi si presenta di una ricchezza inesauribile. In esso ci viene detto che ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai. Di qui la tragedia anche simbolica che si consuma allorché una società non mette più al mondo figli. Hannah Arendt ci dice altresì che la nascita di un figlio non è mai una questione meramente “privata”; esiste una ineludibile dimensione sociale della procreazione; in ultimo ogni bambino che nasce è sempre un bambino che nasce “per noi”.

Seppure con altre parole, questo libro ci lancia in fondo lo stesso messaggio. Una ragione in più per leggerlo con attenzione.

L’autore è professore ordinario di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna

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