Vincent Lambert e quella libertà sacrificata in nome di un suo surrogato
Con la sua morte ci siamo incamminati ancora un po’ di più verso l'oblio anche tutti noi
Vincent Lambert se ne è andato. Dopo nove giorni trascorsi senza alimentazione e senza nutrizione il suo corpo ha ceduto. E’ difficile immaginare che cosa possano avere nel cuore oggi la sua mamma e il suo papà, costretti a vedere il figlio morire lentamente sotto i loro occhi. E’ anche difficile, sempre di più, immaginare tutte le conseguenze che una tale morte programmata possa avere per tutti, per il nostro futuro di pazienti oggi medici che si confrontano quotidianamente con la fragilità umana. La sensazione è che sia stato fatto un altro passo che dal “diritto di morire” porta verso il “dovere di morire”, e che lo si sia fatto dimostrando apertamente che vite come quella di Vincent non sono degne di essere vissute, nemmeno se qualcuno le considera come una madre può considerare la vita di un figlio, sia pure in una situazione di gravissima disabilità. “Il segreto dell’esistenza umana – scrive Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov” – non sta soltanto nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui vivere, l’uomo non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare sulla terra”.
E allora oggi chi è morto? Non è morto solo Vincent Lambert, sono in parte morti anche i suoi genitori e ci siamo incamminati ancora un po’ di più verso la morte anche tutti noi. In nome di una forzata e artificiale libertà, la stessa che il Grande Inquisitore propone come alternativa alla “faticosa libertà della scelta tra bene e male” che il Signore ha scelto per l’uomo come unica strada possibile, è stato ucciso un figlio amato. Inutile, sostiene l’inquisitore di Dostoevskij , faticare tanto nell’essere liberi: l’uomo vuole qualcosa di più semplice, di più tangibile, vuole “il pane”, un pane capace di soddisfare subito i suoi desideri “infantili”, i suoi limitati “progetti da schiavo”. Quel giorno, nel deserto, qualcuno volle proporre al Signore di trasformare le pietre in pane: Lui non accettò e, pur affamato, non cadde nella trappola del soddisfacimento immediato. Il tentativo sotto i nostri occhi è lo stesso, con un pane diverso: l’autonomia di farla finita con la propria vita “indegna di essere vissuta”, la morte come estremo atto di pietà, come un atto medico normalizzato, se possibile anche da estendere a chi, benché non l’abbia chiesta, risulti troppo inutile per poter essere mantenuto in vita. E questo, da medico, detto nella consapevolezza che non tutti e sempre debbano essere mantenuti in vita a ogni costo e in ogni condizione, ma che perlomeno ci si sappia fermare di fronte a qualcuno che terminale non è e per il quale una madre e un padre chiedevano ancora un po’ di tempo.
“L’uomo si inchina a chi gli dà il pane – continua il Grande Inquisitore – giacché nulla è più indiscutibile del pane; ma se qualcun altro si impadronirà nello stesso tempo della sua coscienza, oh, allora egli butterà via anche il pane e seguirà colui che aveva lusingato la sua coscienza”. Il punto è proprio questo: il “nuovo pane” che ci viene offerto è solo l’antipasto di qualcosa di più grande, di qualcosa che piano piano si sta impadronendo delle nostre coscienze anestetizzandole anche rispetto ai fatti più gravi e innaturali come quello della morte di Vincent Lambert. E il rischio è grandissimo: perdere la libertà vera, quella divina, per ritrovarsi con un surrogato fatto su misura per un uomo svilito e umiliato. Quello stesso uomo falsamente libero di uccidersi o direttamente soppresso “per il suo bene”.
Ferdinando Cancelli è medico palliativista