Di chi è la mia vita?
Perché non si può invocare la sovranità individuale in nome di una visione distorta della democrazia
Professor Cassese, le recenti vicende francesi hanno richiamato l’attenzione del pubblico sul fine vita, sull’eutanasia, su chi ha il potere di disporre del nostro corpo, sull’influenza della democrazia sulla vita. Si è parlato di un eccesso di autodeterminazione.
Un insieme di problemi. Partirei dalla domanda: possiamo disporre a nostro piacimento del nostro corpo? Così come lo curiamo (ad esempio, assumendo medicamenti) o lo danneggiamo (ad esempio, con il fumo o le droghe), possiamo anche adottare atti estremi di disposizione (suicidio, eutanasia)? La risposta a questa domanda incontra una prima biforcazione. Chi ritiene che noi siamo opera di un Creatore, pensa che darsi la morte sia una violazione della sua volontà. Chi ritiene che noi siamo frutto terreno della volontà di un uomo e una donna, poi plasmato da una società, una cultura, una comunità, deve pensare che non basti una decisione individuale per disporre di se stessi. Una persona ha una famiglia, è stato in una scuola, ha partecipato alla vita di una comunità. Ha dei doveri nei confronti di chi lo circonda, che ha contribuito a plasmarlo.
Quindi, l’individuo non è solo, anche nel decidere qualcosa che lo riguarda così da vicino.
La nostra Costituzione contiene una disposizione che suona così: ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Questo articolo, dimenticato, tradito, indica all’individuo una funzione. Non ci si può assentare o sottrarre a questa funzione con una decisione individuale, insindacabile.
Quella disposizione viene dopo l’altra che stabilisce il diritto al lavoro. Ma in Italia sembra più forte il diritto alla pensione – cioè al non lavoro, che il diritto al lavoro. Simmetricamente, il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso della società viene facilmente dimenticato.
Sono due anomalie, che fanno male all’individuo, prima che alla società, perché alimentano l’individualismo estremo, la prevalenza del singolo sulla comunità, il “vogliamo tutto” che fa parte degli eccessi del ’68.
Dunque, lei pone un limite alla “sovranità” dell’individuo su se stesso.
Proprio perché il singolo è frutto di una società, non vive da solo, non può prendere decisioni estreme da solo. Questo è un primo criterio generale
Che va poi calato nella situazione concreta, quella del francese che è stato privato delle cure, quella dell’italiano e dell’inglese che sono stati accompagnati in Svizzera per darsi la morte (e che hanno dato luogo a due decisioni, una della Camera dei Lord, una della Corte costituzionale).
Ma proprio qui intervengono l’individuo e la società che circonda l’individuo, i familiari, i medici, i giudici. Innanzitutto, l’individuo. Noi, in Italia, abbiamo una buona legge, quella del 2017 sul cosiddetto testamento biologico, che prevede disposizioni anticipate di trattamento, criteri per la sedazione palliativa profonda, astensione da ostinazione nel curare.
Ed entrano in ballo la persona e i medici. Ma con quali criteri?
Quelli propri della scienza medica, che ha sempre influenzato le scelte sociali o collettive. Pensi alla stessa nozione di morte: sono solo cinquantuno anni che noi accettiamo che una persona è morta quando il suo cervello non funziona più. E questa decisione fu presa da un gruppo di medici dell’Harvard Medical School, presieduta dall’anestesista Henry K. Beecher nel 1968, che stabilì che la morte doveva esser fondata su criteri neurologici, consentendo la sospensione dei trattamenti di mantenimento in vita senza permessi dei familiari e rendendo così eventualmente disponibili gli organi per tenere in vita tante altre persone bisognose di un trapianto di organi.
Questo è un esempio di una modificazione del concetto stesso di morte, dovuta al lavoro della scienza medica. E gli altri soggetti?
Se l’uomo è anche un “artefatto sociale” (mi lasci usare questa espressione) debbono entrare in ballo altri elementi, nessuno dei quali, però, deve imporre la sua volontà. La legge che detta criteri generali, la famiglia anche per interpretare la volontà di chi non possa esprimersi, i giudici che debbono far rispettare le regole, non imporre la propria decisione.
Insomma, lei vuol dire che le decisioni ultime debbono esser “corali”.
Nel rispetto di quel criterio generale dal quale siamo partiti, che stabilisce un rapporto dell’individuo di debito con la società in cui vive. Non si può invocare una sovranità individuale, o un diritto a determinarsi liberamente, in nome di una visione distorta della democrazia applicata all’individuo stesso.