Tafida Raqeeb (foto via Save Tafida/Facebook)

Eutanasia umanitaria

Matteo Matzuzzi

Dopo Charlie e Alfie, tocca a Tafida. Il suo “best interest” è quello di morire, secondo i medici inglesi

Roma. Il best interest di Tafida Raqeeb, bambina di cinque anni colpita lo scorso febbraio da una devastante emorragia cerebrale, è quello di morire. Così hanno stabilito i medici e i dirigenti del Royal Hospital di Londra, dove è ricoverata in condizioni definite “estremamente gravi”. Un mese fa, era il 19 giugno, i genitori sono stati informati che l’ospedale aveva deciso di sospendere la ventilazione artificiale che tiene in vita Tafida portando la paziente alla morte, in tempistiche ovviamente ignote (i precedenti insegnano che nonostante le previsioni degli specialisti il decesso non è immediato). I genitori, che a staccare le macchine non ci pensano proprio, hanno contattato l’ospedale Gaslini di Genova, che dopo aver esaminato la cartella clinica si è detto disponibile ad accogliere la bambina, nonostante anche i medici italiani abbiano confermato che il quadro è molto grave. Con una precisazione tutt’altro che indifferente: Tafida non è in uno stato di morte cerebrale, ma in uno stato di coscienza minima. Il che cambia – o dovrebbe far cambiare – tutto.

  

Ma anche stavolta, proprio come era accaduto due anni fa con Charlie Gard e l’anno scorso con Alfie Evans, la struttura sanitaria inglese ha negato il trasferimento in Italia: è sempre questione di best interest, e l’interesse migliore per la bambina sarebbe quello di morire, visto che ulteriori trattamenti “invasivi” non porterebbero ad alcun miglioramento delle condizioni di salute. Peccato che l’unico trattamento cui Tafida è sottoposta sia la ventilazione che le consente di respirare e parrebbe assurdo che il Royal Hospital londinese consideri la respirazione assistita un “trattamento invasivo”. Si andrà quindi per tribunali: lunedì è fissata un’udienza davanti all’Alta corte, che presumibilmente – considerati anche qui i precedenti – darà ragione ai medici inglesi, accelerando le procedure per l’interruzione della ventilazione.

  

Il dramma è tutto racchiuso in quelle due parole, “interesse migliore”: la medicina c’entra, sì, ma neppure troppo, se è vero che, come pubblicato sul British Medical Journal solo quattro anni fa, “i migliori interessi dei pazienti includono altri fattori sociali, emotivi e di benessere”, e un tribunale “non è vincolato dalla valutazione clinica”. Per decidere se il malato deve vivere o morire, insomma, si guarderanno “le evidenze” che si hanno davanti, “assicurando che il benessere (del bambino) sia la considerazione suprema”. Quando c’è un conflitto tra quanto ritengono giusto fare i genitori e l’interesse del bambino (“tutelato”, in questo caso, da un parere clinico), a prevalere è sempre quest’ultimo: anche se si tratta di una condanna a morte.

 

Il ragionamento è chiaro: il benessere conta più d’ogni altra cosa e se un trattamento – invasivo o non invasivo, poco cambia – non è in grado di garantire il benessere del paziente o di produrre un miglioramento significativo della sua condizione di vita, va interrotto perché insensato, fine a se stesso. Inutile. E’ il paradosso di un’eutanasia umanitaria, decisa da un pool medico, confermata dal martelletto di un giudice togato e somministrata per tutelare il “benessere” della persona distesa in un letto d’ospedale. Anche se non è in stato di morte cerebrale, ma solo in quello di coscienza minima. La migliore applicazione del best interest l’aveva data l’anno scorso il giudice Anthony Hayden che, respingendo l’istanza dei genitori di Alfie Evans di trasferire il piccolo all’ospedale Bambino Gesù di Roma, aveva definito la sua vita “futile”, cioè senza più alcun senso e quindi sopprimibile data la grave malattia degenerativa che l’affliggeva. Un copione che sta per essere ripetuto, è solo questione di giorni.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.