Rinunciare a un trattamento medico sì può, altra cosa è l'imposizione del “dovere di morire”

Ferdinando Cancelli

Fino a quando non saremo in grado di abbandonare l’ideologia a favore del pensiero critico, si continuerà sulla strada delle sentenze

Ricordo che quando ero bambino e salivo con mio padre nella vecchia e disordinata soffitta del condominio vi era molta polvere sospesa nell’aria illuminata dalle lame di luce che entravano tra le tegole. Se spostavamo qualcosa la polvere aumentava e si vedeva ancor di meno. La pronuncia della Corte costituzionale del 25 settembre in merito alla punibilità dell’aiuto al suicidio ha in effetti “spostato” qualcosa nella già intricata e a suo modo polverosa vicenda del fine vita e la visibilità è senza dubbio ulteriormente peggiorata. E’ assolutamente necessario, nell’ottica di un medico palliativista che trascorre le sue giornate accanto ai malati affetti da patologie inguaribili, cercare per lo meno di lasciare intravedere qualche elemento che permetta di ritrovare alcuni punti fermi nel polverone.

   

In primo luogo è triste che, “in attesa di un indispensabile intervento del legislatore”, su argomenti di tale rilevanza debba pronunciarsi la Corte costituzionale e non il Parlamento. Una sentenza, e aspetteremo di leggerla per esteso una volta che sarà pubblicata, non è certamente il mezzo migliore per regolare una materia delicatissima e molto intricata, dalle ricadute a dir poco drammatiche sulla vita delle persone. La latitanza della politica, la mancanza dell’esercizio di una necessaria azione educativa della legge nei confronti dei cittadini li lascia in balìa degli estremismi, delle reazioni ideologiche frutto della più completa disinformazione. Da un lato qualcuno vorrebbe fare di questo pronunciamento la pietra miliare di uno scontato percorso che partendo dall’esaltazione della libertà individuale “ab-soluta” porta diritto alla legittimazione di eutanasia e suicidio assistito, al grande stravolgimento dell’etica medica che per secoli ha retto la nostra professione e ha fondato il nostro rapporto di fiducia con i pazienti. Dall’altro, e su questo merita soffermarsi con onestà e attenzione, qualcun altro non riesce a riconoscere che i trattamenti medici, di qualsiasi natura essi siano, possono essere rifiutati dal paziente. Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani e altri pazienti allo stesso modo costretti in una situazione da loro stessi giudicata intollerabile possono o non possono avere il diritto di rinunciare ai trattamenti medici? La risposta che la medicina e la nostra coscienza deve dare è che, date determinate condizioni, possono. E se possono farlo, se possono cioè rinunciare a trattamenti giudicati da loro “straordinari”, non hanno bisogno di ricorrere all’eutanasia e al suicidio assistito, cose molto diverse dalla rinuncia a mezzi di sostegno vitale. E il medico può o non può avere il diritto di rifiutarsi di sospendere un trattamento salvavita come la ventilazione se un paziente lo richiede? La risposta che dobbiamo dare con fermezza è che può. Nessun medico può essere costretto per forza a eseguire un atto che contrasti con la propria coscienza, un atto legato da un nesso di causalità con la morte di un paziente se pur affetto da una malattia inguaribile e progressiva.

 

Proviamo a riassumere. Se un paziente malato di Sla non sopporta più una maschera o una cannula tracheale per la ventilazione (proprio questa mattina discutevo un caso di questo genere con una mia collega infermiera) e io avrò fatto di tutto per convincerlo dell’utilità di questo mezzo, gli avrò offerto le migliori cure palliative e l’avrò circondato di tutta la professionalità e l’umanità possibile e lui continuerà a chiedermelo, spiegandomi che preferisce morire sentendo sul volto le carezze della moglie piuttosto che il peso di una maschera per l’ossigeno, quali sono le possibili soluzioni? Se sarà dato corso alla sua richiesta, non ci sarà alcun bisogno di una legge che permetta l’eutanasia o il suicidio assistito e di nessun viaggio in Svizzera. La possibilità di rinunciare a un trattamento medico, sancita dalla legge 219/2017, toglie ogni alibi ai sostenitori di una legge per l’eutanasia e il suicidio assistito, finalmente costretti ad ammettere che i loro fini sono diversi, sono quelli di un “dovere di morire” che minaccia, come già fa in Belgio o in Olanda, anche i più fragili e i più deboli, sempre più spesso non malati in fase avanzata di malattia.

 

Fino a quando però non saremo in grado di abbandonare l’ideologia a favore della razionalità e del pensiero critico si continuerà sulla strada delle sentenze, delle sterili e pericolose contrapposizioni, della negazione della realtà, delle richieste esasperate. Una strada che rischia davvero di essere senza uscita.

 

Ferdinando Cancelli è medico palliativista

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