La farsa del nuovo Codice deontologico che svilisce il ruolo del medico
Definizioni opache e ipocrite sull'aiuto al suicidio. Com'è cambiato l'articolo 17 del Codice di deontologia medica
In seguito alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, il Consiglio nazionale della Federazione degli ordini dei medici ha approvato all’unanimità in data 6 febbraio scorso una modifica dell’articolo 17 del Codice di deontologia medica. E non è una modifica di poco conto dal momento che riguarda un articolo, fino ad ora brevissimo e chiarissimo, dal titolo “Atti finalizzati a provocare la morte”.
“Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”: questo il testo finora vigente, in pieno accordo con il giuramento di Ippocrate e con la tradizione medica occidentale nella quale abbiamo professionalmente respirato finora; una tradizione che ha sempre guardato al medico come a un custode della vita, certo capace di fermarsi di fronte ai trattamenti futili ma senza dubbio estraneo a logiche mortifere. Ma l’aria è cambiata e, come spesso avviene nel nostro paese, lo ha fatto in un modo strisciante, privo anche di quel coraggio che un tale nefasto cambiamento avrebbe richiesto se davvero avesse voluto lasciare cadere ogni ipocrisia. Perché a leggere l’articolo 17 così come è adesso ci si accorge che la frase che prima era l’intero articolo è rimasta ma che è seguita da quanto nei fatti la smentisce. “La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo – si legge nel nuovo articolo – il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (…) va sempre valutato caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”.
Cioè siamo liberi: o forse no? Se non dobbiamo “effettuare né favorire atti finalizzati” a provocare la morte di un nostro paziente, come potremo con “libera scelta” agevolarne il proposito di suicidio? Perché dovremmo non essere puniti “dal punto di vista disciplinare” secondo la seconda parte di un articolo ormai confuso e disorientato che, nella sua prima parte, ci ingiunge di “non effettuare né favorire atti finalizzati” a provocare la morte di un paziente? E aiutarlo a suicidarsi che cos’è? Non è un atto?
Scriveva Madeleine Delbrêl che lei avrebbe voluto vedere gli atei vivere davvero come tali, fino in fondo, senza nessun tipo di speranza. Avrebbe voluto vederli all’opera nel loro pieno ateismo, fino all’estremo della loro scelta, a volte anche tragicamente suicidaria, affinché potessero rendersi conto della povertà assoluta di una vita veramente senza Dio. E io, da medico, avrei preferito che quella prima frase dell’articolo 17 fosse stata tolta, fosse stato cancellato anche l’ultimo baluardo di quelle mura della ragione tradizionale che ci hanno permesso di sopravvivere professionalmente in secoli di storia medica occidentale. Se ci fosse stato il coraggio di farlo, il nostro Codice deontologico avrebbe sicuramente cambiato direzione ma lo avrebbe fatto con chiarezza, permettendoci di vedere dietro le parole una chiara mentalità a favore della morte su richiesta. Invece il coraggio non c’è stato e può andare in scena una farsa, quella di un’opaca definizione che cercando di accontentare tutti non fa felice nessuno. E che finisce per avvilire il vero ruolo del medico, di quello che vuole sempre stare dalla parte della vita dei suoi malati, senza mai aiutarne nemmeno uno a uccidersi.
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