"Non compriamo i bambini", recitava l’adagio dei sostenitori della maternità surrogata. “E’ un atto d’amore, è altruismo”. Poi quella fotografia ci ha risvegliato alla realtà, che era molto meno edificante dello slogan love is love. Il turismo riproduttivo, la “vita in vendita” denunciata anni fa da Jacques Testart, esiste, eccola. “Siamo diventati un negozio di neonati”, denuncia il commissario ucraino per i diritti dell’infanzia, Mykola Kuleba. Decine di neonati nelle culle, che dormono, che piangono o che sorridono alle infermiere, avvolti in lenzuola pulite. Stanno aspettando che i genitori committenti vadano a prenderli. Il coronavirus ha impedito che tante coppie occidentali potessero ritirare il loro bambino parcheggiato in un hotel di Kiev e ottenuto tramite la maternità surrogata. Le autorità affermano che almeno cento bambini sono già bloccati e che mille altri potrebbero nascere prima che il divieto di ingresso in Ucraina per gli stranieri venga revocato. Bambini nati apolidi, senza identità, che esistono soltanto perché è stato firmato un contratto commerciale. La questione, un tempo tabù, è stata lentamente sdoganata al punto che quando la filosofa francese e femminista, Sylviane Agacinski, un anno fa doveva parlare proprio contro la maternità surrogata all’Università di Bordeaux, è stata cacciata dopo una campagna di interdizione e di odio. Siamo passati dal chiamare le surrogate “portatrici” o “maternità di sostituzione”, fino a “maternità per gli altri”. “Le parole sono il sintomo del disagio, c’è molto da nascondere”, ha scritto Agacinski.
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