Aborto Ztl. Note sulle linee guida per la Ru486
D’ora in poi si può abortire con la pillola in day hospital, negli ambulatori, e persino nei consultori. Abbandonate le periferie, il Pd non sa più cosa sia la “questione sociale”
Roma. Con poche righe scarne il ministero della Salute sembra avere liquidato con incredibile rapidità la questione della pillola abortiva, la Ru486. Anche se le agenzie annunciano che sono state “pubblicate le nuove linee guida”, si tratta di una semplice circolare ministeriale intitolata “Aggiornamento delle linee di indirizzo sull’interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”. Nessuna traccia di considerazioni mediche specifiche, di novità scientifiche o legislative che giustifichino il profondo cambiamento avviato, solo una comunicazione burocratica che equivale a un tana-libera-tutti: d’ora in poi si può abortire con la pillola in day hospital, negli ambulatori, e persino nei consultori. Più che di linee guida mediche argomentate si tratta di un invito a fare ognuno come gli pare, purché si liberino gli ospedali dal fastidioso ingombro dell’aborto. Tanto le donne non protestano. Le femministe sembrano davvero convinte che si tratti di una conquista, e in quanto alle donne che abortiscono, difficilmente denunciano, protestano, rivendicano. Spaventate e colme di segrete inquietudini come sono, accettano tutto, subiscono e cercano solo di dimenticare l’intera faccenda il più velocemente possibile.
La legge 194 sull’aborto, come è noto, si deve alle battaglie di radicali e femministe, e chi ha vissuto quegli anni non può dimenticare il processo a Gigliola Pierobon, la galera di Adele Faccio, le raccolte di firme per il referendum abrogativo, i digiuni di Pannella, le piazze invase dai movimenti delle donne. Però la legge la fecero altri, i cattolici della sinistra indipendente, quelli che allora venivano chiamati cattocomunisti. Furono Raniero La Valle e soprattutto Mario Gozzini a lasciare il proprio marchio indelebile sul testo della legge, a partire dal titolo: “Norme sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Basta leggere il primo articolo per capire la filosofia che ispira la legge: “Lo stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”. Ebbene, sì: la legge sull’aborto si preoccupa di dichiarare fin dalle prime righe che il legislatore non è affatto a favore dell’aborto, e intende tutelare la vita fin dall’inizio. Un ossimoro, una contraddizione, una insensatezza? Oppure una furbata, il tentativo di barcamenarsi tra diverse esigenze politiche, lo sforzo di fare contenta la base femminile del Pci senza troppo dispiacere alla Dc, e senza troppo inasprire lo scontro con le gerarchie ecclesiastiche? Né una cosa né l’altra. O meglio, entrambe: la formula è certamente contraddittoria, e nel Pci la voglia di non fare saltare la strategia del compromesso storico c’era, eccome. Ma l’idea di fondo di un partito come il Pci dell’epoca, e ancora di più della sua componente cattolica, era che la maternità, accettata o rifiutata, fosse una questione sociale, non un diritto individuale, e come tale lo stato doveva farsene carico. Si spiega così l’obbligo di eseguire gli aborti solo nelle strutture pubbliche, la settimana di riflessione, l’insistenza sul fatto che l’interruzione di gravidanza non è un mezzo di controllo delle nascite e che lo stato deve vigilare affinché non lo diventi, il ruolo affidato ai consultori, che dovrebbero sostenere le maternità difficili, “contribuendo a superare le cause che potrebbero indurre la donna a interrompere la gravidanza”. Le cose, poi, hanno preso un’altra piega, e il sostegno alle donne che il figlio in realtà lo avrebbero voluto lo hanno fornito i volontari dei Centri di aiuto alla vita, in genere donne, che hanno saputo aiutare altre donne e hanno fatto nascere migliaia di bambini.
Ma quel Pci non c’è più da tanto tempo. Abbandonando le periferie e rifugiandosi nelle più confortevoli aree Ztl, il Pd non sa più cosa significhi “questione sociale”. Che la maternità riguardi l’intera comunità, che il desiderio del figlio non sia solo un diritto del singolo, ma una questione sociale, appunto, è ormai un concetto straniero. Diritti, diritti, diritti: questa è l’impalcatura ideologica che sostiene e ingabbia la sinistra, ma diritti non equivale affatto a libertà: non avendo mai avuto nessuna propensione per il liberalismo, la formulazione dei diritti è spesso persino illiberale, come accade, per esempio, alla legge sull’omofobia. Ecco quindi che Roberto Speranza, esponente di una sinistra un po’ più a sinistra del Pd, cancella con una breve circolare una filosofia politica, e si dimostra perfettamente allineato con la sinistra Ztl, che sa pensare la maternità, e tutti i problemi e le paure legate a questo evento straordinario, solo nella chiave di fatto privato: è l’aborto Ztl.