La pandemia è rivelatoria, ci mostra che per vivere è necessario un rischio maggiore, oppure, che per ridurre il rischio, è necessario limitare la vita, ovvero la capacità di autodeterminarsi in libertà
Nel 1974, Ernest Becker era morto da poco quando il suo libro, “The denial of death”, riceveva il premio Pulitzer divenendo subito un classico. Oggi appare un po’ datato nel suo nucleo centrale in gran parte dedicato ad Otto Rank e Søren Kierkegaard, ma l’intuizione da cui prende avvio la sua riflessione resta attualissima: l’uomo teme la morte più di ogni altra cosa, e tutto ciò che fa, lo fa per provare a sfuggirle. L’eroismo, in tutte le sue forme, è sempre stato la manifestazione più evidente e ricorsiva del suo tentativo di eternarsi. E’ al coraggio, inteso come capacità di fronteggiare il pericolo e dunque la morte, che per millenni abbiamo donato la nostra più grande ammirazione proprio perché rappresentava la caratteristica principale dell’eroismo che a sua volta era il principale “progetto d’immortalità”. Per questo, Becker definisce “naturale” la spinta all’eroismo. La società contemporanea, data la sua evoluzione, offre sempre meno opportunità (e credibilità) a questa soluzione di riparo dalla paura della morte che accompagna l’uomo dall’alba della coscienza. Il progressivo imbarazzo che oggi sentiamo ogni volta che si parla di eroi, come fosse un retaggio quasi neolitico, ci mostra con chiarezza non che siamo diventati dei mollaccioni, ma che tutto un orizzonte esistenziale e di percezione del reale è mutato irreversibilmente.
Abbonati per continuare a leggere
Sei già abbonato? Accedi Resta informato ovunque ti trovi grazie alla nostra offerta digitale
Le inchieste, gli editoriali, le newsletter. I grandi temi di attualità sui dispositivi che preferisci, approfondimenti quotidiani dall’Italia e dal Mondo
Il foglio web a € 8,00 per un mese Scopri tutte le soluzioni
OPPURE