l'intervento
Il Parlamento alla prova del fine vita. Invito alla riflessione
L’ideologia rumorosa non può nascondere le reali esigenze del malato
A poco più di un anno dall’inizio di una pandemia che ha brutalmente smascherato gravi inefficienze e clamorosi ritardi nella sanità pubblica e privata del nostro paese, una parte del Parlamento avrebbe quindi deciso di riaprire a breve il dibattito sul fine vita. La scelta non può lasciare indifferenti, il momento che stiamo vivendo non è simile ad altri nel passato e la morte, spesso negata e poco visibile fino a quando non ci tocca personalmente, è ricomparsa all’improvviso dal backstage occupando tragicamente la scena del nostro quotidiano. La ripresa quindi di un dibattito parlamentare di questo tipo in tempo di emergenza sanitaria porta con sé una serie di domande. La prima è la più elementare: non varrebbe forse la pena riprendere in mano con pacatezza e determinazione tutte le lacune sanitarie messe in luce da una pandemia ancora attiva senza imboccare il senso sbagliato?
Spieghiamoci meglio: i reparti di anestesia e rianimazione sono andati spesso in affanno, il personale degli ospedali, ridotto all’osso, ha cercato con sforzi inimmaginabili di sopperire alle carenze di organico, le strutture di Pronto Soccorso, già sotto stress in tempi normali, sono state travolte da richieste numerosissime e difficili da gestire, le case di riposo si sono rivelate in alcuni casi i luoghi meno adatti per gli anziani fragili, i medici di base sono stati spesso lasciati a se stessi e hanno dovuto fronteggiare situazioni al limite. Perché non partire da qui facendo tesoro di quanto non ha funzionato per iniziare un grande e pubblico dibattito sulla sanità italiana anziché prospettare lunghi discorsi sul diritto alla morte?
In Italia il fine vita è attualmente regolato dalla legge 219 del 2017, legge che permette ad “ogni persona capace di agire” di esercitare “il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario”, compresi l’idratazione, la nutrizione e la ventilazione. Per di più, e questo è un punto molto critico, “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”. Con la sentenza 242 del 2019 la Corte di cassazione ha però voluto fare un passo in più: ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale escludendo la punibilità per chi “agevola il proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”. Questa persona, scrive sempre la Cassazione, deve essere “capace di intendere e di volere” e la richiesta di morte deve essere verificata da una “struttura pubblica del Sistema sanitario nazionale” con il parere di un comitato etico territorialmente competente.
Quando lessi la sentenza rimasi, da medico palliativista, senza fiato e per la prima volta ebbi la netta sensazione dell’ergersi graduale ma progressivo di un edificio al quale forse il prossimo dibattito parlamentare vorrà dare compimento. Un edificio però che non si fonderà sulle solide fondamenta di un servizio sanitario ineccepibile e efficiente ma sulle tante zone deboli che andrebbero per lo meno sanate prima di pensare di caricare ulteriormente un terreno già pericolosamente cedevole. E tale debolezza venne riconosciuta persino da chi, nel Comitato nazionale di bioetica e precisamente nel parere “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito” del luglio 2019, era su posizioni possibiliste ad abbreviare la vita in “casi eccezionali e ben determinati”. Costoro infatti, lo si legge nel documento, evidenziarono in modo concorde “i rischi che comporterebbe una scelta da parte del nostro legislatore di depenalizzazione o di legalizzazione del cosiddetto suicidio medicalmente assistito modellato sulla falsa riga di quello effettuato da alcuni paesi europei (…). I sostenitori di questa posizione – si legge ancora – ritengono infatti che i concreti pericoli di un pendio scivoloso sarebbero accentuati in maniera significativa nella realtà italiana”. Giova ricordare che in quell’occasione 12 componenti sui 25 che votarono, considerarono “un’eventuale legittimazione del suicidio medicalmente assistito” “un vulnus irrimediabile al principio secondo il quale compito primario e inderogabile del medico sia l’assoluto rispetto della vita dei pazienti”.
E tutto questo succede mentre i medici palliativisti ricordano gli undici anni di una legge, la 38 del 2010, che ha reso le cure palliative un diritto di ogni cittadino, uno dei “livelli essenziali di assistenza”. Un diritto ancora ampiamente disatteso in molte zone del nostro paese, un cammino ancora lungo che dovrebbe però vederci molto più avanti nel controllo del dolore e di tutti i sintomi che possono affliggere chi si trova vicino alla fine della vita, sintomi non solo fisici ma anche psichici, sociali, spirituali. Prima di offrire a un malato la possibilità di scegliere la morte come opzione c’è ancora molto di cui discutere e resta moltissimo da attuare. Le esigenze dei malati che incontriamo ogni mattina a domicilio e in hospice sono molto diverse e più semplicemente umane da quelle che una minoranza ideologicamente rumorosa vorrebbe farci credere.
Il Parlamento, in una mattina di inizio estate, potrebbe partire dalla realtà e imboccare così la giusta direzione.
*medico palliativista