Espungere la teoria gender dal ddl Zan è un buon compromesso
Un atto elementare di cautela culturale e di controassicurazione rispetto ai rischi educativi, civili e di diritto di una scelta tanto radicale e finora tanto oscuramente argomentata. Bravi renziani
La censura legale dell’omofobia e della transfobia, quando siano atteggiamenti violenti e intolleranti contro la persona e non posizioni di pensiero o stati d’animo, avrebbe probabilmente una maggioranza sicura in Parlamento. Invece l’identità di genere richiamata nel disegno di legge Zan divide. Tanto più adesso che, con una mossa politicamente astuta e culturalmente comprensibile, i renziani hanno chiesto di derubricare questo simbolo ideologico controverso, via emendamento, e di tornare alla formulazione della legge Scalfarotto, che di genere come concetto “performativo” distinto dal sesso e dall’orientamento sessuale non si occupava.
Non si sente il bisogno di una discussione senatoriale o camerale su Judith Butler, la filosofa dell’identità di genere, e sui suoi agguerriti avversari nel mondo della cultura e della saggistica democratico-liberale o perfino femminista. Sarebbe una faccenda un po’ complicata per la quale non sono certe le competenze dei discussant.
Ma a occhio, nonostante la grottesca lettera dei 16 leader europei che hanno abbracciato anche l’identità di genere come un diritto umano fondamentale, e dunque da promuovere nel campo dell’educazione pubblica, quasi tutti capiscono senza sforzo che un conto è tutelare gli omosessuali e i transessuali dall’intolleranza, un altro conto è stabilire per legge che esiste uno spazio libero di determinazione di ciò che tu vuoi essere sul piano sessuale, uomo donna o niente di tutto questo. O meglio. Questo spazio esiste, nella ricerca, nella libertà di pensiero e azione di gruppi d’avanguardia, in una certa misura anche nella pratica comune, ma è difficile considerare la sua tutela giuridica come un diritto umano fondamentale.
Farlo non vuol dire legittimare ciò che è sempre legittimo, il libero gouvernement de soi. Farlo vuol dire decretare un salto che i filosofi chiamerebbero “ontologico” nella percezione che uomini e donne hanno di sé e del mondo. Vaste programme. Sei libero e tutelato nell’esercitare il tuo rapporto personale o di gruppo con l’orientamento sessuale, fino a cambiare sesso anche clinicamente, ovvio, ma non ha una base legale protetta l’idea, peraltro libera come idea, che l’anagrafe biologica e burocratica, che ti iscrive come maschio o femmina all’origine, esattamente come fa la Scrittura e come fa da millenni il senso comune umano, è una menzogna frutto di oppressione e dominazione. Non si può pretendere tutto dalla vita, anche dalla vita legale di un parlamento e di uno stato democratico e di diritto di cui il parlamento è l’articolazione fondamentale nei paesi liberali.
Lo stadio di avanzamento dell’identità di genere, e tutti farebbero una cosa giusta a prenderne atto, appartiene alle università, alla mobilitazione nella guerra culturale e politica sul tema, al gioco senza frontiere né limiti del pensiero e della ricerca. Fissare in una legge che non esiste maschio né femmina se non nella scelta soggettiva ripetuta e forzata da una cultura vuoi patriarcale vuoi femminista, e questo perché sulla scorta di Michel Foucault e della French Theory alcune università americane, case editrici, fanzine e altro si sono incapricciate della faccenda anche con densità e pesantezza di stile filosofico, bè, questo è un altro discorso. Espungere la teoria azzardata e spericolata da una legge è un atto non solo di genuino compromesso, un modo prudente di procedere nel tempo, è anche un atto elementare di cautela culturale e di controassicurazione rispetto ai rischi educativi, civili e di diritto di una scelta tanto radicale e finora tanto oscuramente argomentata. Bravi renziani.