Meglio morire da cani che arrivare alla fine umiliati nel corpo e nell'anima
Le carezze a Petra e una richiesta di pietà anche per noi umani, che abbiamo diritto a una fine affettuosa, senza paura
Vorrei morire come un cane. E non è una battuta, che sarebbe, peraltro, di cattivo gusto. E’ quello che ho pensato quando Petra, dopo aver fatto parte per diciotto anni della nostra vita e della nostra famiglia, se n’è andata. Vorrei morire come lei, vorrei che le persone che amo morissero come lei. Non in una stanza di ospedale, non col corpo deturpato dai medicinali e dalle flebo, non in asettica camera di rianimazione, non in una bara di vetro, non con la maschera dell’ossigeno, non in preda a dolori lancinanti, non nella solitudine e nella paura.
Vorrei morire come un cane.
Petra era vecchia, malferma, non ci vedeva più, non sentiva. Non riusciva neppure ad arrivare alla porta per salutarci al rientro. Dormiva molto. Camminava lentamente, inciampando. Però scodinzolava se gli facevamo una carezza, con il muso si strofinava sulle ginocchia e all’ora di cena si avvicinava al tavolo con la speranza di un bocconcino. Non voglio dare una versione idilliaca ed edulcorata della vecchiaia di un animale: cacca e pipì dappertutto, stracci, disinfettante, varechina passati continuamente sul pavimento. Dovevamo farlo. Se fosse stata un’anziana signora avrebbe avuto una badante. A lei dovevamo pensare noi. Poi un giorno si è piegata sulle gambe e non è stata capace di rialzarsi. Non si è lamentata ma è rimasta ferma. Non ha voluto più mangiare né bere, ha rifiutato testardamente tutti gli antidolorifici.
Vorrei morire come un cane.
Se Petra fosse stata un essere umano avremmo chiamato il pronto soccorso, l’avrebbero portata in ospedale, in un ambiente estraneo, sarebbe rimasta sola, avrebbe avuto tanta paura. Le avrebbero torturato il corpo nel tentativo di prolungare la vita. E’ doveroso, dicono. Invece è andata in un altro modo. Con un cane si può fare diversamente. Se Petra non soffriva, se stava gradualmente passando dalla vita alla morte l’avremmo accompagnata. Due coperte nel mezzo del salotto, una bacinella con dell’acqua, tante carezze. Mia figlia ha dormito sul divano per starle vicino. Tutti noi le stavamo vicini, lei non aveva neanche le forze di scodinzolare, ma sapevamo che era contenta. “Purché non soffra” continuavamo a ripeterci come un mantra, davanti i suoi occhi che si aprivano sempre più a fatica. Eravamo pronti ad aspettare. Poi la telefonata di un veterinario amico. Petra stava soffrendo, anche morire di fame e di sete è doloroso, anche non capire che cosa ti sta succedendo è penoso in modo indicibile. Era arrivato il momento di un atto pietoso, ci ha detto. Così è stato.
Vorrei morire come un cane.
Petra ha avuto una sedazione. Abbiamo sentito il suo respiro farsi più profondo, il corpo ormai abbandonato sulle coperte, gli occhi che non tentavano più di aprirsi. Al momento della seconda iniezione, quella che ce l’avrebbe portata via, un bacio e le ultime carezze. Le lacrime, la tristezza quando il cuore ha cessato di battere.
Vorrei morire come un cane.
Gli esseri umani, tutti noi abbiamo diritto a una fine affettuosa, intima, senza paura. “E’ morto circondato dall’affetto dei propri cari” si leggeva una volta sui necrologi. Ora non più o, almeno, molto raramente. Noi donne e uomini del Ventunesimo secolo arriviamo all’appuntamento più importante soli, umiliati nel corpo e nell’anima. Circondati da macchine, senza una mano da stringere. Questo non è un articolo a favore dell’eutanasia, non è, ovviamente, neanche contro di essa. E’ solo una richiesta di pietà anche per noi umani, un invito a riflettere sul fatto che oggi gli animali muoiono meglio di noi. Che nella nostra morte non c’è niente di caritatevole, di intimo, di degno. E che è davvero meglio una morte da cani.