Il cattivo servizio reso da Enzo Bianchi al delicato dibattito sul fine vita
L’ex priore di Bose fa confusione su eutanasia e cure palliative e così invalida il suo ragionamento su temi sensibili e carichi di ideologia
Su Repubblica del 29 novembre Enzo Bianchi afferma di aver “alcune volte” ascoltato al letto di un “malato terminale” o accanto a una persona “devastata dalla sofferenza fisica e psichica” l’affermazione di non voler più vivere perché “il dolore è troppo forte” unita alla richiesta “aiutatemi a morire! Fatemi morire!”. In un articolo dove l’autore continua a ripetere di non avere certezze, di non poter giudicare, di rispettare tutte le scelte del malato, di non avere soluzioni, tutto secondo il solito registro dell’assoluto relativismo fatto solo di domande che nascondono risposte chiarissime ma mai apertamente dichiarate, si notano alcune gravi carenze. L’autore afferma infatti di voler offrire “l’accompagnamento con gli strumenti umani e cristiani” che ha e che “il malato richiede e accetta”.
Ma come potrebbe esserci un corretto accompagnamento se prima, anche prima di scrivere oltre che di aiutare, si mostra di essere molto lontani dalla corretta comprensione del tema che si vuole affrontare? “Tra cure palliative assolutamente necessarie (…) e che possono avere come effetto secondario l’accelerazione della morte – scrive Bianchi – e l’eutanasia come astensione dalle cure e, a volte, dalla nutrizione c’è una zona grigia non leggibile in modo manicheo”. Mi fermo un momento prima di procedere nella lettura. Rileggo. Mi occupo da circa vent’anni di medicina palliativa e passo la mia giornata a spiegare a pazienti e famiglie che le cure palliative non accelerano né ritardano il decesso (per definizione) e che, se correttamente applicate, si limitano a rappresentare quell’accompagnamento che Bianchi vorrebbe offrire. Lo dico in altre parole: i progressi farmacologici, le buone pratiche cliniche, la professionalità e il lavoro in équipe, quello che facciamo tutti i giorni, ci portano a non vedere praticamente mai persone che ci chiedono di morire perché “devastate” dalla sofferenza fisica o psichica. E, per i pochissimi casi veramente refrattari e giunti a poche ore o pochi giorni dal decesso, la sedazione palliativa profonda permette di far dormire il malato senza ucciderlo prima del tempo. Purtroppo la confusione di Enzo Bianchi non si ferma solo alle cure palliative ma riguarda anche l’eutanasia, apparentata frettolosamente all’“astensione dalle cure” e “a volte dalla nutrizione”. Ricordo all’autore che per eutanasia non si intende “l’astensione dalle cure” ma il dare la morte a chi ce lo richiede, ad esempio mediante la somministrazione di un farmaco letale. Vi sono casi in cui il paziente non desidera alcuni trattamenti ma in ogni caso desidera continuare ad essere curato correttamente sia dal punto di vista professionale che umano, desidera restare vicino ai propri cari fino alla fine. Se ognuno di questi pazienti potesse essere superficialmente etichettato come un paziente che richiede l’eutanasia sarebbero le basi stesse della medicina a vacillare.
Non si rende un buon servizio “all’ascolto, alla riflessione, alla pietà”, per usare le parole di Bianchi, se si offre al lettore non esperto un quadro confuso e fuorviante. Cure palliative, eutanasia, accanimento terapeutico: concetti sulla bocca di tutti ma spesso misconosciuti o gravemente deformati anche da chi vorrebbe parlarne pubblicamente. Una “scelta da rispettare” sarà possibile quando il dibattito si libererà da ogni ideologia.
Ferdinando Cancelli
medico palliativista