Vita, libertà e suicidio assistito: una risposta a Vito Mancuso
Anche i filosofi e i teologi rischiano di finire schiavi delle proprie categorie: la scelta tra vita e libertà non esiste per il semplice fatto che senza la prima non c’è la seconda
Nel silenzio mediatico, favorito dall’abbagliante situazione della guerra in Ucraina, la Camera ha approvato il disegno di legge sul suicidio assistito che ora dovrà passare l’esame del Senato. La guerra però non solo ha favorito lo scivolamento sottotraccia di una proposta legislativa superficiale e pericolosa per le sicure derive eutanasiche che ne deriveranno e che sono già evidenti in altri paesi che hanno percorso questa strada, la guerra serve a qualcuno per promuovere una legge malfatta. Questo qualcuno arriva a utilizzare il conflitto e la scelta di combattere per la libertà del proprio paese per mostrare che chi, malato, sceglie di morire è, come il partigiano e come Vito Mancuso che lo scrive sulla Stampa a tutta pagina, una persona per cui “è più importante la libertà della vita”. Ma, dice Mancuso in apertura, “è chiaro che senza vita non c’è libertà”.
Mi devo fermare un momento per fare il punto. Senza vita non c’è libertà, tutto il ragionamento del grande “teologo e filosofo e accademico” però continua a contrapporre la scelta per la vita (quella dei cattivi, che aiutano chi è nella condizione di malattia avanzata “con le cure palliative”, non accettano il suicidio assistito e non vogliono aiutare gli ucraini con le armi, restando sempre sulle sue parole) a quella per la libertà (quella, ovviamente, di lui stesso, di quelli che accolgono la richiesta di suicidio assistito e che vogliono aiutare con le armi gli ucraini).
Siamo alla confusione totale tra letto e campo di battaglia, tra materia bioetica e situazione storica, ma soprattutto siamo al più bieco utilitarismo, quello di chi non esita, nel nome ovviamente della più grande “apertura”, dell’eterna “domanda senza risposta”, della “rispettabilità per tutti”, a fare paragoni avventati, a mettere etichette al collo di malati e combattenti, a ingenerare la confusione per tirare l’acqua al proprio misero mulino. Il grande teologo cade però nella sua stessa trappola: la vita è possibile anche senza la libertà (lo dimostrano generazioni di incarcerati, torturati, maltrattati e vivissimi più di molti apparentemente liberi), la scelta dicotomica tra vita e libertà non esiste per il semplice fatto che senza la prima non c’è la seconda e quindi la libertà di scegliere di morire è apparente perché comunque si opta per la fine di tutto, i malati che stanno per morire spesso danno lezioni di lucidità e libertà anche ai grandi teologi e filosofi perché insegnano un amore per la vita a molti sconosciuto.
Povero teologo e filosofo, a furia di sentirsi libero rischia di finire schiavo delle proprie categorie e, naturalmente, di chi è interessato che così sia. Si consoli, caro accademico: il mondo che la circonda è più complesso, variegato e interessante di come lei lo descrive. Pensi che ci sono palliativisti che aiuterebbero gli ucraini combattendo al loro fianco e che contemporaneamente sono contrari al suicidio assistito, che è pieno di malati immobilizzati nel letto che non vogliono per nulla morire e che ci sono persone che riescono a comprendere la bioetica senza volerla insegnare agli altri.
Ferdinando Cancelli
medico palliativista