il peso dell'aborto
Così i repubblicani americani stanno aggiustando la campagna elettorale in vista del voto
Tra un mese, in California, Kentucky, Montana e Vermont si terranno referendum analoghi a quello dello scorso 3 agosto in Kansas, che doveva porre fine alle protezioni legate all’aborto ma venne respinto. Difficile ipotizzare come andranno
C’è una data che fa da spartiacque nella campagna elettorale dei candidati repubblicani, da una costa all’altra dell’America, in vista delle elezioni di metà mandato che – nelle speranze del Grand Old Party – dovranno rappresentare l’avviso di sfratto a Joe Biden dalla Casa Bianca. Quella data è il 3 agosto, quando il Kansas, senza che nessun segnale lo facesse pensare, votò per respingere un emendamento costituzionale che avrebbe posto fine alle protezioni per l’aborto.
Se avessero vinto i Sì, il Kansas avrebbe raggiunto gli altri stati che limitano o proibiscono l’interruzione di gravidanza, sulla scia della sentenza della Corte suprema che all’inizio dell’estate ha cancellato Roe vs Wade rimettendo in capo agli stati la decisione su come rapportarsi alla questione dell’aborto. Il Kansas è conservatore, lì Trump ha vinto in scioltezza e solo nella contea di Johnson (che è la più grande) prevalse Biden con il 53 per cento. Al referendum, nella stessa area, il 68 per cento si è schierato per dire No alle restrizioni perorate dai repubblicani e dalla variegata galassia pro life. Tra un mese, referendum analoghi si terranno in California, Kentucky, Montana e Vermont. Da agosto, a risultati del Kansas certificati, i candidati del Gop in corsa hanno rivisto slogan e priorità della campagna elettorale. Con un filo comune evidente: abbassare i toni e sfumare l’opposizione all’aborto e farla finita con l’esuberanza festosa post affossamento della Roe vs Wade.
Perfino un candidato benedetto da Trump, Blake Masters, ha cambiato idea. Lui tenta di vincere il seggio in Arizona che fu di John McCain e che ora è dell’ex astronauta democratico Mark Kelly. Era partito in quarta sul fronte del no all’aborto. A marzo concedeva un’intervista al network cattolico Ewtn (accusato anche in Vaticano di essere tra i principali contestatori del pontificato bergogliano) in cui sosteneva che “ogni società ha visto sacrifici di bambini o sacrifici umani in una qualche forma, e questa è la nostra forma. Ora dobbiamo fermarci”. Sul proprio sito, campeggiava a caratteri cubitali la definizione di “cento per cento pro life”. Adesso, con i sondaggi che non vanno come vorrebbe (Kelly è in vantaggio stabilmente di circa quattro punti, anche se l’Arizona resta comunque in bilico), Masters si fa un po’ più moderato e pragmatico: “Proteggere i bambini, non lasciare che vengano uccisi. I democratici mentono a proposito delle mie idee sull’aborto”. Ora è schierato per il divieto d’interrompere la gravidanza dopo il terzo mese. Prima, voleva un emendamento costituzionale che riconoscesse “i bambini non nati come esseri umani che non possono essere uccisi”. Rivedono i propri piani anche coloro che affrontano sfide destinate a essere perse in partenza, come quella di Tiffany Smiley nello stato di Washington, saldamente liberal. Davanti alle accuse della senatrice uscente Patty Murray (che siede in Senato dal 1993) di essere favorevole a un divieto federale d’aborto, Smiley ha replicato di “rispettare gli elettori dello stato di Washington che hanno deciso cosa vogliono sul tema”, riferendosi alla legge pro choice approvata trentuno anni fa. Smiley assicura quindi che, se eletta, sosterrà il diritto di abortire nell’ambito della legislazione vigente. Eppure, la candidata repubblicana è nota per le sue posizioni pro life, tant’è che ottenne già in primavera l’endorsement della senatrice del Tennessee Marsha Blackburn, una che invece il divieto federale lo vuole e fa campagna attiva per raggiungere lo scopo.
Ancor più netta è stata April Becker, che in Nevada è in corsa per un seggio alla Camera dei rappresentanti. Lei, che si definisce “pro life con l’eccezione dello stupro, dell’incesto e della vita della madre”, ha già fatto sapere che “assolutamente non voterà” per un divieto federale di aborto in quanto “ciò sarebbe incostituzionale” e questo perché, a giudizio di Becker, “il Congresso non ha il potere di regolare l’aborto”. C’è la consapevolezza, sul fronte repubblicano, che per riconquistare il Congresso e mandare un messaggio a Biden non basterà cavalcare l’onda del ribaltamento di Roe vs Wade. Anche perché, nei mesi scorsi, si è notata una corsa a registrarsi in vista del voto da parte di tante donne. E gli osservatori, per quanto complicata sia la lettura di un fenomeno del genere in una realtà come quella americana, ipotizzano che sia la reazione, per lo più emotiva almeno nella prima fase, di quante vogliono difendere diritti acquisiti da mezzo secolo. Studiando la campagna elettorale di vari candidati, Politico ha osservato che a forza di calcare la mano sulla questione dell’aborto, i repubblicani sono costretti sulla difensiva. Per i democratici è il tema clou, ogni dibattito e quasi ogni spot sono focalizzati su quello, lasciando pochissimo spazio al resto. Se ne è lamentato Colin Schmitt, che concorre per un seggio al Congresso nel diciottesimo distretto di New York: il suo sfidante, il democratico Pat Ryan, parla solo d’aborto, costringendo Schmitt a spendere tempo e soldi in spot per rispondere e spiegare come la pensa sulla questione. Eppure, lui vorrebbe parlare d’altro, “dei temi che stanno avendo un impatto su tutte le famiglie del distretto, la criminalità, l’immigrazione e l’economia”.
Parrebbe dunque che la galassia dei candidati repubblicani sia in affannosa rincorsa. Ma è davvero così? I sondaggi delineano una situazione più fluida: ci sono candidati pro life ben posizionati in vista delle midterm e altri che invece arrancano, anche in realtà che tradizionalmente dovrebbero essere loro favorevoli. E’ il caso della Georgia, dove il Gop tenta di riprendersi il seggio senatoriale che da due anni è appannaggio del reverendo Raphael Warnock, un pastore protestante che sconfisse la cattolica Kelly Loeffer, già più ricca senatrice degli Stati Uniti e detentrice del record del cento per cento di voti “pro Trump”, come ebbe a dire e ribadire in campagna elettorale. Il problema è che il pro life in campo è Herschel Walker, personaggio dal curriculum controverso che avrebbe pagato una sua amante per abortire nel 2009. Lui ha negato tutto, il Daily Beast ha replicato mostrando le prove e il New York Times ha aggiunto che due anni dopo Walker avrebbe fatto pressioni sulla stessa donna affinché interrompesse una nuova gravidanza. Ha quattro figli con quattro donne diverse, uno non riconosciuto.
La moglie ha detto che in passato lui le puntò la pistola alla testa e il figlio ha pubblicamente dato del bugiardo al padre, definendolo un violento che in famiglia ha fatto passare giorni terribili a tutti e che non avrebbe mai dovuto presentarsi alle elezioni. Il candidato va avanti, gira le cittadine della Georgia, entra nelle chiese e ribadisce che vuole abolire l’aborto anche in caso di stupro, di incesto e pure se la vita della madre è in pericolo. E chi va ad ascoltarlo lo applaude, non dando troppa importanza alla credibilità del personaggio. Il perché l’ha ricordato Maureen Dowd in un commento sul New York Times. La popolarissima conduttrice radiofonica Dana Loesch ha detto: “Non mi interessa se Herschel Walter ha pagato per abortire i pulcini di aquila in via d’estinzione. Io voglio il controllo del Senato”. E’ questa la chiave che rende complicato ipotizzare come andranno queste elezioni. Troppi i fattori in gioco, molte le incognite che negli ultimi giorni potrebbero annullare vantaggi che oggi si ritengono acquisiti e che a ridosso dell’8 novembre, magari a causa di qualche variabile impronosticabile (un’escalation bellica in Europa?) che potrebbe ridisegnare una mappa che a oggi consegna almeno una Camera ai repubblicani, rendendo Joe Biden un’anatra zoppa per il resto del mandato.