Perché così poche persone hanno fatto il testamento biologico? Una piccola inchiesta
La legge esiste dal 2017, ma in pochi ne hanno usufruito. Forse perché l'informazione è una condizione necessaria per l'esercizio delle nostre libertà. Anche quando scegliamo di non usarle
Quando una mia amica mi ha detto che aveva prenotato la chiesa per sposarsi due anni più tardi ho pensato “ma chissà se tra due anni hai ancora voglia di sposarti”. Quando mi chiedono se posso andare da qualche parte il prossimo mese mi domando “e che ne so?, dipende da come mi sveglio”. A parte la mia cronica incapacità di pensarmi al futuro (ce l’ho sempre avuta) e la mia oscillazione umorale, c’è una questione seria che riguarda la nostra identità personale. Come facciamo a dire che noi siamo gli stessi di ieri e saremo gli stessi domani? Come facciamo a sapere che cosa desidereremo domani o la prossima estate? Più tempo ci mettiamo tra oggi e domani, più la faccenda si complica.
Ogni promessa e ogni contratto e ogni appuntamento potrebbero farci interrogare e dubitare. E’ naturale che impegnarci per un caffè la prossima settimana ci preoccupi meno di decidere se tra dieci anni o in un futuro indeterminato vogliamo essere collegati a un respiratore, vogliamo essere nutriti e alimentati artificialmente oppure vogliamo essere lasciati morire. E’ per questo che così poche persone hanno compilato le proprie disposizioni anticipate di trattamento (Dat)? Possiamo farlo ormai da cinque anni ma a compilare il modello per decidere oggi cosa vogliono e cosa non vogliono sono stati solo una piccola percentuale di chi potrebbe farlo (in assenza di dati ufficiali e aggiornati, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ha chiesto ai Comuni). Due premesse: quando abbiamo una possibilità non dobbiamo usarla e non usarla non implica il fallimento di quella libertà. Sicuramente non c’è stato un interesse istituzionale a informare – come non c’è mai stato sulla contraccezione, sulle malattie sessualmente trasmissibili, sulla donazione degli organi e su tante altre cose. Ma perché non abbiamo compilato il testamento biologico?
Senza alcuna ambizione di aver selezionato un campione statisticamente rilevante, ho fatto questa domanda sul mio Twitter e sul mio Facebook e per qualche giorno a tutti quelli che mi capitavano (questi ultimi sono stati felicissimi delle mie domande insistenti). Oltre alla difficoltà di immaginare le nostre volontà future e la poca voglia di pensare alle malattie e alla morte, che immaginavo, ecco alcune ragioni per non fare il testamento biologico (o per non averlo ancora fatto). Chissà quali sono rimediabili, e chissà se cambierebbero con maggiori informazioni.
Forse alcuni di quelli che hanno risposto di non sapere che in Italia si potesse fare avranno scaricato il modello o saranno già andati in Comune a depositarlo. O forse si sposteranno nella categoria di chi ha giustificato il non averlo fatto con la pigrizia, con l’avere troppo da fare per mettersi un altro pensiero, con la procrastinazione – in qualche caso il rimandare si mischia e si sovrappone alla scaramanzia e al non voler pensare alla propria morte, alle malattie o agli incidenti. L’altro grande insieme è di chi non vuole avere a che fare con le difficoltà burocratiche, teme di perdere tempo e di trovarsi a discutere con persone che non ne sanno molto o che ti consegnano un (altro) modulo da compilare per avere delle informazioni. Un altro modo di dire che è il timore della palude burocratica a fermarli è il non poter usare un modo immediato e facile (Spid, online o comunque non una caccia al tesoro di luoghi, orari e chiacchierate con la pubblica amministrazione evanescente e incompetente).
C’è chi ha una fiducia assoluta nel proprio medico (che è la moglie, così non vale però) e chi non si fida che le proprie volontà saranno rispettate – un po’ per la clausola del comma 5 dell’articolo 4 (il medico è tenuto a rispettare le nostre volontà ma può non farlo se “appaiono palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale” oppure se ci sono terapie “non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”), un po’ come sfiducia esistenziale verso il prossimo, un po’ per la limitatezza di quello che la legge 219 permette di decidere (il riferimento è alla eutanasia vera e propria e non solo alla possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento). Poi ci sono la volontà di non decidere in senso forte, l’indecisione e la difficoltà di scegliere quale trattamento accettare e quale rifiutare.
Infine, ci sono la difficoltà di indicare il fiduciario e la preoccupazione di dargli una responsabilità difficile e dolorosa. Quest’ultima motivazione è interessante e forse merita tempo e attenzione. Non è solo difficile fidarsi della corretta interpretazione e del compimento dei nostri desideri, ma c’è anche la delicatezza di non investire una persona troppo vicina, che si troverebbe a dover prendere una decisione impossibile, a far rispettare una nostra volontà che lei per prima non vorrebbe rispettare. Insomma, non è detto che se ci fosse una informazione soddisfacente, tutti noi avremmo fatto le Dat. Ma l’informazione è una condizione necessaria per l’esercizio delle nostre libertà. Anche di non usarle.