transfobia o critica costruttiva?
Tra disforia e gender: i falsi miti che inquinano un dibattito necessario
Le teorie di Butler sono diventate leggi impossibili da mettere in discussione. Ma in un universo teorico che spinge verso la liberazione dai costrutti sociali, la decostruzione conduce a una affermazione totale dell’individuo, ovvero di “scelta”. Un concetto pericoloso per le persone realmente affette da disforia
La società italiana, rispetto a quelle anglosassoni, è più conservatrice, con ancora forti preconcetti su omosessualità e transgender, se non nelle leggi, almeno culturalmente. Così, la comparazione erronea tra paesi conduce a un cortocircuito perché le obiezioni espresse dai critici britannici o americani vengono rapportate alla realtà di casa nostra e appaiono infondate. Ne emergono dei falsi miti, come per esempio quello che la teoria gender sia un complotto per negare la disforia di genere, ovvero la scienza. In realtà è vero il contrario. Cerchiamo di spiegarlo.
La disforia di genere è un disturbo scientificamente riconosciuto che causa sofferenza in individui il cui sesso assegnato alla nascita non coincide col genere percepito. E’ una condizione dunque che riconosce una coincidenza predominante. D’altra parte, quando si parla di teoria gender si fa largamente riferimento al pensiero di Judith Butler per la quale sesso e genere sono interamente costrutti sociali. Anche il sesso infatti si sarebbe materializzato nel tempo attraverso la reiterazione di norme imposte. Di predominante non c’è nulla. Nell’universo immaginato da Butler i transgender non dovrebbero pertanto esistere, eppure per lei, solo quando si parla di loro, il gender diventa rilevante. Sembra un controsenso? Lo è, e non è l’unico. In un recente articolo, Guido Vitiello definisce gli scritti di Butler “un campionario lussureggiante di fallacie”. Malgrado ciò, in molti sono saliti sul carro di questa ideologia incongrua e antiscientifica che non può essere messa in discussione, pena l’accusa di transfobia. In breve, una religione che in alcuni paesi ha portato a una teocrazia del gender.
Un altro falso mito è che si tratti di un’invenzione dell’estrema destra. In realtà, gli scritti di Butler compaiono prima dell’èra trumpiana ed è stata proprio la tendenza generalizzata ad abbracciare le sue teorie a essere strumentalizzata dai pro vita per ingaggiare battaglie ultra conservatrici contro transessuali e aborto. Un boomerang sia per i transgender che le per donne. Va precisato anche che, nel Regno Unito, le politiche gender sono state attuate da un governo di destra mentre gli oppositori provengono largamente da sinistra, come per esempio la filosofa Kathleen Stock che nel 2021 dovette lasciare la cattedra universitaria per avere attaccato l’applicazione dell’UK Gender Recognition Act anche a persone che non avevano effettuato la transizione biologica. Oggi infatti nel Regno Unito basta dichiararsi di un altro sesso per essere riconosciuti giuridicamente tali. Ma, come sottolinea Stock, il dibattito è il cuore della filosofia e le teorie di Butler sono, appunto, solo teorie, e come tali debbono poter essere messe in discussione. Invece, con l’azzeramento del dibattito, sono diventate addirittura leggi.
Le preoccupazioni sollevate da Stock sono rilevanti sia per comprendere il contesto britannico che per valutare le implicazioni dell’ideologia di genere di Butler. In primis, Stock critica la sostituzione del termine “donna” con “persona con utero”, che ha portato alla scomparsa dell’identità femminile, sostituita da un mero concetto riproduttivo. Dal punto di vista pratico, anche il riconoscimento giuridico del gender a discapito della biologia è andato a svantaggio delle donne. Ad esempio, il semplice dichiararsi donna da parte di un uomo gli concede accesso a spazi femminili, nonostante mantenga ancora gli organi genitali maschili, privando così le donne di protezione dal rischio di aggressione sessuale. Un caso eclatante (quello di Isla Bryson) ha portato a una riconsiderazione da parte dei giudici, dopo che, incarcerata in una prigione femminile, aveva stuprato due detenute. La sentenza stabilì che avrebbe dovuto scontare la nuova condanna in un carcere maschile. Anche se l’incidenza statistica di questi casi è bassa, il problema riguarda il principio: l’adozione di leggi per proteggere una categoria non può metterne a rischio un’altra, soprattutto quando si basa su di un pensiero filosofico non sufficientemente dibattuto.
Stock ha anche lottato contro l’uso indiscriminato di bloccanti della pubertà presso il centro specialistico di identità di genere di Tavistock (recentemente chiuso). A causa del divieto delle pratiche di orientamento sessuale, il confine tra questo e la diagnosi era diventato labile (anche una sola domanda al paziente poteva essere interpretata come un tentativo di orientamento) privando medici e psicologi degli strumenti d’indagine per distinguere la disforia di genere da altre problematiche come autismo o abusi domestici. Il risultato è stato che per anni il personale (per non rischiare di perdere il posto in un clima di caccia alle streghe) ha prescritto medicinali finalizzati a bloccare la pubertà senza accurate diagnosi e dunque anche ad adolescenti per i quali non solo non erano necessari ma controproducenti. Sono casi come questo (frequenti anche negli Stati Uniti e in Canada) ad avere creato la percezione di un “supermercato”, dove si è arrivati al paradosso che le teorie del gender promuovano l’idea che sesso e gender si possano scegliere.
Alcuni continueranno a pensare che questa immagine sia solo uno spauracchio transfobico, ma la verità è che Butler dice esattamente questo. In un universo teorico che non riconosce predominanze e che spinge verso la liberazione dai costrutti sociali, la decostruzione conduce inevitabilmente a una affermazione totale dell’individuo, ovvero di “scelta”. Questo, per le persone realmente affette da disforia, è un concetto più pericoloso di qualsiasi opposizione mossa dagli oppositori delle teorie gender, parte perché si offre come arma alle forze effettivamente transfobiche e parte perché, determinando il principio di scelta, nega la transizione come necessità derivante da una condizione specifica.