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la riflessione

Bene il nuovo “manuale” della Chiesa sul fine vita, ma serve altro

Lucetta Scaraffia

L’apertura sulle regole rigidissime promulgate anni fa era attesa da tempo, ma il documento bioetico dell'Accademia per la Vita rischia di essere una mediazione politica più che una riflessione profonda. Non si deve fuggire il tema centrale: quello profondo della vita e della morte

 

Era ora che la Chiesa cambiasse opinione sulle regole rigidissime per il fine vita promulgate anni fa, che hanno gettato nello sconforto molti medici cattolici ben consapevoli che il rifiuto di staccare trattamenti di nutrizione artificiale poteva diventare una condizione di prolungamento doloroso della vita per molti malati. In questi anni, in realtà, molti di quei medici hanno disobbedito per il bene dei pazienti, ma negli ospedali cattolici  le cose erano diverse: disobbedire non era possibile.

Le norme finora vigenti nascevano da una riflessione bioetica  imperniata su una teologia morale  incapace di ascoltare il parere dei medici curanti, molti dei quali si sono così allontanati dalla Chiesa. 
Ben venga quindi il manuale bioetico dell’Accademia per la Vita (il “Piccolo lessico del fine-vita” presentato un paio di settimane fa, ndr) con istruzioni meno rigide. I manuali, anche su temi così complessi, possono servire, ma solo se sono sostenuti da una riflessione che li precede e li affianca: una riflessione che non tema di affrontare la vera questione che sta alla base del problema, quella del valore di ogni vita umana e di ogni morte.

Invece questa discussione manca. Il manuale viene presentato come un necessario adeguamento ai tempi, come un tentativo di mediazione politica con la modernità, e per di più il suo carattere puramente  pratico viene accentuato dal fatto che è destinato solo al caso italiano; seguiranno infatti altri manuali, così pare,  per tentare la mediazione con la cultura di altri paesi. Ma davvero niente poteva indicare con più chiarezza che si stava fuggendo dal tema centrale: quello, appunto, della vita e della morte. Un tema che segna in modo fondamentale il passaggio alla modernità scolarizzata, un tema che dovrebbe costituire quindi il cuore del pensiero cattolico sul mondo.  Di migranti, di come far finire le guerre, di ecologia e di povertà possono discettare tutti, a buon diritto. Intorno alla vita e alla morte, invece,  le tradizioni religiose rimangono le principali e uniche depositarie di una verità antica e sacra, che oggi si vuole dimenticare, addirittura cancellare.

Per piacere un po’ a tutti, meglio insomma  parlare di politica di mediazione invece di ricordare che la vita ci è stata donata in modo misterioso, e che, almeno secondo la fede cattolica,  non ne siamo i proprietari ma solo i beneficiari. 

Non uccidere, il più vincolante  ma anche il più  disatteso, ahimé, dei dieci comandamenti lo ricorda a tutti gli esseri umani: la vita non è disponibile, neppure la tua  stessa vita. Questa indisponibilità della vita è alla base dei diritti dell’uomo. Il rispetto dovuto a ogni essere umano si fonda appunto su questo pilastro, toccare il quale  può far crollare tutto sistema morale e giuridico che in qualche modo è ancora il nostro: coloro che parlano del diritto di decidere la propria morte non si rendono conto che questo diritto può significare la fine di tutti i diritti.

Basterebbe guardarsi in giro, e vedere cosa succede nei paesi come il Belgio  che hanno legalizzato da anni l’eutanasia: il libero consenso del malato, che doveva costituire il limite invalicabile di ogni pratica eutanasica, è saltato abbastanza rapidamente. E così oggi è possibile l’“eutanasia” anche  dei neonati e dei malati mentali, cioè di due categorie per definizione giuridica incapaci di consenso.

Ritornare su queste verità, cercare di farsi ascoltare in culture dove l’eutanasia viene presentata solo come un altro progresso della modernità, sarebbe estremamente utile, direi indispensabile. Però una tale capacità di tornare alla drammatica profondità del problema dovrebbe  andare di pari passo con una dialogo  con i medici circa i cambiamenti delle terapie che negli anni hanno via via  spostato la linea che divide la vita dalla morte. L’apertura sulla cessazione dei trattamenti come l’alimentazione artificiale non deve nascere dall’interesse politico di trovare mediazioni “per il bene comune” bensì  da un approfondito esame dei cambiamenti verificatisi nel processo del fine vita che le scoperte tecno-scientifiche oggi consentono. Per prima cosa, si dovrebbero  stabilire  ad esempio  i limiti imposti da una necessaria prudenza allorché si tratta di assicurare mediante la rianimazione una sopravvivenza anche nei casi gravissimi di pazienti che così rischiano di trovarsi sospesi per decenni fra la morte e la vita.  E poi, ancora, si dovrebbero  delineare meglio  i limiti del  prolungamento artificiale della  vita per i  malati  coscienti ai quali dovrebbe essere riconosciuta con larghezza la possibilità di rifiutare le  cure. Ma i due processi devono andare avanti insieme, da un lato la  riflessione teorica  sulla vita e sulla morte, dall’altro l’esperienza pratica medica. Altrimenti le decisioni della Chiesa sembreranno  sempre un compromesso al ribasso  con la modernità e nulla più. 

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