Contrada nel meccanismo infernale
Uno dei primi comunicati di commento all’arresto di Bruno Contrada fu quello di Luciano Violante, allora presidente della commissione parlamentare Antimafia. Era la vigilia di Natale del 1992, le stragi di Capaci e Via D’Amelio erano state compiute da pochi mesi e quello dell’alto funzionario del Sisde si poteva ben definire il primo arresto eccellente, come usano aggettivare i cronisti senza fantasia. Per raccordare “cosa nostra” con la misteriosa “entità”, il “terzo livello”, cosa meglio dei famigerati “servizi deviati”? Violante, con il suo tempestivo comunicato nella mattina di vigilia, raffreddò gli entusiasmi. “Attenzione – questo era il senso – L’accusa nei confronti di Contrada si riferisce a un periodo antico, quando i pentiti non c’erano e i poliziotti lavoravano grazie agli informatori. Era inevitabile dunque che avessero qualche contatto coi mafiosi”. Il presidente dell’Antimafia era il più intelligente della compagnia e aveva già capito l’essenziale. Intanto, il reato contestato era, per così dire, in via di definizione e il processo una specie di esperimento. Oggi, dopo oltre un ventennio, da Strasburgo ci ricordano che gli imputati non possono essere trattati come cavie.
Il problema principale per Violante stava comunque nella periodizzazione delle stagioni dell’antimafia. Contrada apparteneva all’epoca pre-Buscetta, diciamo così. L’epopea del grande pentito si sarebbe chiusa con il processo Andreotti. Da Terranova, Costa e Chinnici a Falcone e Borsellino per arrivare, attraverso Caselli, a Ingroia, Scarpinato e ora Di Matteo. In ogni stagione c’è uno scarto rispetto alla precedente, che determina la “damnatio memoriae” di qualche suo protagonista. Perfino di Falcone, quando andò a Roma. Contrada è rimasto stritolato in questo meccanismo infernale. In modo diverso, dopo, è toccato anche a Violante, che forse aveva capito tutto. E a Mori. E a De Gennaro. Ma questa è questione in cui non ci può aiutare una Corte europea.
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