La retorica, la mafia e Borsellino
La retorica non porta mai nulla di buono. Spesso fa danni. Se ci si attiene a questo criterio di precauzione si finirà per osservare con occhio diverso anche la più dovuta fra le cerimonie commemorative. Anche quella che si è svolta ieri a Palermo per commemorare la strage di via D’Amelio. Poco retoricamente si potrebbe affermare che nella retorica Paolo Borsellino era già immerso prima di essere ucciso dalla mafia. Come dimenticare la sua ultima uscita pubblica a Palermo, il suo intervento in memoria di Giovanni Falcone 28 giorni dopo la strage di Capaci. Sinceramente affranto dall’uccisione del suo amico, lo commemorava avendo al suo fianco quelli che lo avevano attaccato e diffamato nell’ultima parte della sua vita.
C’era il professore Alfredo Galasso, Paolo Flores, Leoluca Orlando che da tutte le tribune possibili, e allora ne avevano davvero molte, avevano attaccato Falcone trattandolo come uno che si era reso complice della politica corrotta. Stavano tutti lì quella sera, nella cornice suggestiva e un po’ spettrale di casa Professa, ma Borsellino non chiese loro conto di quelle parole, preferì addebitare a Leonardo Sciascia la morte di Falcone a causa di un testo, pubblicato dal Corriere della Sera in cui per la verità Sciascia di Falcone non parlava. “Quando quell’articolo fu pubblicato, Falcone cominciò a morire” disse. Fu un momento terribile. Si sentì quasi incombere la morte nell’aria immobile di una sera di fine giugno nel centro storico di Palermo. Sembrò di assistere a una tragedia greca non recitata ma vissuta, che infatti si compì poche settimane dopo. Compiuta la tragedia è iniziata la farsa. Basta vedere le foto della commemorazione di ieri.
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