Il giudice Bruno Tinti e il caso della bambina di Ragusa
Il caso della bambina di Ragusa presa in braccio dal migrante indiano dal passato non irreprensibile ha appassionato il giudice Bruno Tinti, ormai in pensione e ora commentatore sul Fatto. La sua tesi è semplice: ha ragione la madre della bimba quando dice che la legge la fa vomitare. Hanno invece torto i parlamentari della destra quando invocano garantismo per i loro sodali mentre “incitano al linciaggio quando il criminale da tutelare non è uno dei loro e quando il ‘giustizialismo’ applicato al delinquente comune garantisce consenso e voti”. La critica, diciamo così, non mi pare del tutto infondata ma può inquietare che un magistrato qualifichi cittadini in attesa di giudizio offrendo loro in poche righe la sola alternativa fra criminali o delinquenti. Bastava usare l’espressione “indagati” senza alimentare il sospetto che Tinti consideri le parole, quelle da lui usate e quella qui consigliata, sostanzialmente sinonimi. Resta un aspetto tecnico che riguarda la possibilità del pm, pur non potendo applicare il fermo, secondo le nuove leggi esecrate dal dottore Tinti, di chiedere comunque al Gip la misura cautelare. Tinti sostiene che la nuova legge non consente neanche questo, ma calcola, ai fini della richiesta di custodia cautelare, il minimo della pena prevista per il tentato sequestro di persona. Il codice di procedura parla però di un calcolo fatto sul massimo della pena cui si applica la riduzione minima, di un terzo della pena. Dunque da dodici anni si arriva a otto (e non a quattro come scrive Tinti) e c’è la possibilità per il pm di chiedere la misura cautelare. La legge non c’entra, con buona pace del giudice Tinti e del procuratore capo di Ragusa.
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