No, non è vero che la Cassazione ha detto di liberare Riina
Cosa c'è dietro la sentenza dei giudici che hanno accolto (in parte) le richieste della difesa del boss mafioso, malato
Se martedì mattina qualche giornale dovesse titolare “Vogliono liberare Riina” è bene sapere che ci sarebbe dell’esagerazione. Lunedì è stata resa pubblica una sentenza della prima sezione penale della Cassazione sulle condizioni di detenzione del “capo dei capi”. La trafila è questa: Riina, che ha 86 anni, gli ultimi 24 dei quali trascorsi in carcere, sta male e il suo avvocato ha presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna (Riina è detenuto a Parma) in cui si chiede la sospensione della pena o almeno i domiciliari.
I giudici bolognesi hanno risposto di no, motivando con la intatta pericolosità del personaggio. La Cassazione ha annullato la decisione ma – ecco il punto – rinviandola ai giudici bolognesi per “difetto di motivazione”. Vuol dire che dovranno scriverla meglio. La Cassazione spiega che la pericolosità da sola non basta come argomento, scrive che esiste per tutti, anche per i peggiori dunque, il “diritto a una morte dignitosa”. Non si esclude che possa avvenire in carcere ma si chiede di argomentare più analiticamente.
Ci sono dei precedenti, l’ultimo è il caso di Provenzano che obiettivamente stava ancora peggio di Riina ma fu lasciato morire in carcere. Prima ancora analoga sorte ebbe Michele Greco detto “il Papa” e ancora prima toccò a quello che di Riina e Provenzano era stato il capo, Luciano Liggio. Erano tutti pluriergastolani e grandi capi. Per i boss di medio calibro il trattamento è stato talvolta diverso. Gaetano Fidanzati e Gerlando Alberti furono mandati a morire a casa loro. Difficilmente sarà così per Riina. La Cassazione ha chiesto solo di rispettare le forme. In fondo esiste per questo.