E il pentito investigò il pm su “faccia di mostro”
La storia di Giovanni Ajello e l'impressione che il “colloquio investigativo” si chiami così perché il collaboratore di giustizia cerca di capire quello che vuole sentirsi dire il magistrato
Stralci, non manipolati, dal file di un “colloquio investigativo” (che non è un atto giudiziario) fra un sostituto della direzione nazionale antimafia e un “collaboratore di giustizia” calabrese, avvenuto nel febbraio 2012 in un carcere. Si parla di un uomo dal volto sfigurato ma il pentito dice: “Non riesco a visualizzarne il volto”. Il pm chiede: “Era stato coinvolto in fatti stragisti?”. “Sì, metteva le bombe”. “Le faccio un esempio che può apparire stupido – dice il pm con tono colloquiale – lei ha mai messo una bomba in un asilo?”. “No”. “E quello dove metteva le bombe?”. “Le ha messe in un asilo”. Il pentito a questo punto si sente in dovere di disapprovare le stragi del 1992 e il pm subito chiede: “Era coinvolto nella strage di Capaci?”. “Ma chi? Quello? Ah, sì”. “Le ha parlato di altri attentati?”. “Non ricordo”. “Della strage Borsellino?”. “Sì, se non ricordo male”. “Dell’Addaura?”. “Mi pare di sì”. “Della strage alla stazione di Bologna?”. “Come no? Si vantava di aver partecipato”. “Le hanno mai detto che ha sparato a un bambino?”. “Mi sembra di sì”. “In quale città?”. “Sicuramente in Calabria”. “O in Sicilia?”. “Ora che ci penso meglio, in Sicilia”. “Ammazzò un bambino a Palermo?”. “Sì, sì. Ora ricordo”. “Quell’uomo era calabrese?”. “Aveva un accento calabrese”. “Si chiamava Giovanni?”. “Giovanni, sì”. “Di cognome Ajello?”. “Sì. Giovanni Ajello. Sì”. Viene da pensare che il “colloquio investigativo” si chiami così perché il pentito investiga su quello che vuole sentirsi dire il pm e può capitare che ci siano pm molto trasparenti.