La tecnostruttura della “'ndrangheta stragista”
Al via il processo a Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone accusati dell'omicidio dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Un cold case che tale non è
Cold case. Parola evocativa di serial dove i buoni, magari in modo tortuoso, quando sembra che il delitto impunito sia destinato all’oblio, ne vengono a capo. Parola buona a rassicurare. E’ passato del tempo, non si trovava la soluzione e allora, da investigatori implacabili, abbiamo ricominciato tutto da capo e ora eccoci qui. La soluzione è trovata. Quando, alla fine di luglio dell’anno passato, la procura di Reggio Calabria tenne la conferenza stampa per annunciare la custodia cautelare ottenuta per Giuseppe Graviano, già peraltro oberato da qualche ergastolo, e per il calabrese Rocco Santo Filippone, la stampa usò largamente l’immagine del cold case. A sproposito. Il duplice omicidio dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, avvenuto in Calabria a metà gennaio del 1994, non era affatto rimasto impunito, esattamente come non lo erano rimasti la sparatoria, per fortuna incruenta, contro altri due soldati dell’Arma, avvenuta nella stessa zona un mese e mezzo prima e un successivo duplice ferimento che chiuse la sequenza il primo febbraio 1994. Due giovani malavitosi del luogo Giuseppe Calabrò e Consolato Villani vennero arrestati nello stesso 1994, e condannati definitivamente nel giro di pochi anni. Sono sicuramente loro i colpevoli ma, dieci anni dopo, i due, divenuti collaboratori di giustizia, hanno cambiato il movente saldandolo alla strategia delle stragi mafiose del 92-93. Non più un fatto locale. Cambia tutto, hanno affermato con orgoglio nella conferenza stampa del luglio scorso gli inquirenti, ponendo le basi del processo ora iniziato sulla “’ndrangheta stragista”. Ma si sono lasciati scappare un’altra parola di troppo: tecnostruttura. (continua)