Giuseppe Marrazzo (foto Wikipedia)

Quando la docu-fiction faceva scuola

Massimo Bordin

I servizi di Joe Marrazzo erano dei piccoli speciali, sceneggiature. Come quando si piazzò a casa di Raffaele Cutolo. Perché "Diario civile" merita di essere visto

Il mercoledì sera tardi, dopo “LineaNotte”, su Rai 3 c’è un programma che, da chi fa fatica ad andare a dormire, merita di essere visto: “Diario Civile”. Ricostruzioni, con i materiali d’archivio della Rai, di vicende di terrorismo e di mafia. Spezzoni, spesso in bianco e nero, che riportano all’Italia degli anni 70. Recentemente una puntata, più che a una vicenda è stata dedicata a un giornalista, anche se non fu ucciso dalla mafia. Morì in albergo a Napoli. La mattina dopo doveva seguire una udienza del processo Tortora, dove si distingueva rispetto alle certezze colpevoliste di molti suoi colleghi.

 

Joe Marrazzo era un giornalista anomalo e bravissimo. Democristiani e comunisti non lo amavano, toccava ogni tanto ai socialisti difenderlo in commissione di Vigilanza. I suoi servizi nei tg erano dei piccoli speciali, delle sceneggiature. Le sue interviste avevano ambientazioni e inquadrature che dicevano allo spettatore più delle parole dell’intervistato, come quando si piazzò a casa di Raffaele Cutolo, seduto insieme alla sorella del boss e ai suoi luogotenenti. Spesso però intervistava non personaggi noti ma presi dalla strada, filmati nel loro ambiente. Il neorealismo applicato alla cronaca giudiziaria, l’effetto era formidabile. Memorabile un servizio sulla droga a Verona. Un vicolo dietro piazza Dante, una siringa in un anfratto di muro, un ragazzo che si avvicina e comincia ad armeggiare col cucchiaino e l’accendino. Marrazzo gli arriva alle spalle, lo tocca e gli chiede “Perché lo fai?”. La docu-fiction era arrivata al tg. Fece scuola. I suoi allievi più promettenti erano due ragazzi: Michele Santoro e Sergio De Gregorio, il futuro senatore.

Di più su questi argomenti: