L'onere della prova secondo il governo Conte
Per il fisco si è innocenti fino a prova del contrario, che tocca allo Stato produrre. Parole sante, ma non solo per i commercianti di Confcommercio
Se un oratore usa il termine “lessèma” invece dell’assai più semplice “parola” non c’è poi così da stupirsi quando a “fratello” preferisce “congiunto”. In fondo mischiare termini burocratici da verbale giudiziario a parole erudite da saggio giuridico è una caratteristica degli avvocati, e dei magistrati, nelle aule giudiziarie come in quelle parlamentari. Quanto al “non ricordo”, il senso della frase lo fa intuire legato non al nome della vittima della mafia ma agli insulti contro il fratello presidente, come espediente per evocarli senza citarli. Ciò non toglie che le parole del presidente Conte siano risultate infelici, anche se la critica ieri rimbalzata dai giornali ai social network finisce per apparire enfatica. Soprattutto, da un punto di vista politico, la querelle mette in secondo piano l’esternazione del ministro Luigi Di Maio di fronte all’assemblea della Confcommercio, dove il capo politico del Movimento cinque stelle ha di nuovo rovesciato l’onere della prova, che questo governo agita come in uno shaker. Per il fisco si è innocenti fino a prova del contrario, che tocca allo Stato produrre. Parole sante, valide però, a norma di Costituzione, non solo per i commercianti che si sono prodotti in ovazioni per il ministro. La questione è rilevante perché nel famoso programma si oscilla fra la mano dura verso i “grandi evasori” alla “pace fiscale” verso i piccoli. Proposito in sé tutt’altro che disprezzabile, ma difficile a tradursi nelle leggi e nei codici senza qualche pasticcio.