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Il malinteso giustizialista sulla nomina di un avvocato nell'antimafia lombarda

Massimo Bordin

Il legale ha rinunciato alla commissione antimafia della regione Lombardia perché in passato ha difeso dei mafiosi

Il caso della avvocata milanese M. T. Z., designata da Forza Italia come componente della commissione antimafia della regione Lombardia ma invitata dimettersi per motivi di opportunità da una campagna politica e di stampa, si presta a più di una considerazione. È inopportuno, sostiene il presidente della commissione, che chi abbia fornito difesa legale a mafiosi, faccia parte di una struttura di contrasto alla mafia. Naturalmente, aggiunge perfino il Fatto quotidiano, non si vuole equiparare l’avvocato al suo assistito e al reato di cui è accusato. L’ipocrisia di questa argomentazione è già stata ben denunciata dall’avvocato Giandomenico Caiazza in un suo intervento, qui si può aggiungere che il comitato della commissione nel quale l’avvocata M. T. Z., è stata proposta dovrebbe essere presieduto da Nando Dalla Chiesa, che ai tempi del maxi processo di Palermo propose la radiazione dai partiti di sinistra di quegli avvocati iscritti che difendevano gli imputati piuttosto che le parti civili. Di confusione fra difensori e difesi appunto si trattava. C’è però un altro aspetto della questione. Le commissioni parlamentari, regionali o nazionali che siano, dovrebbero essere volte all’elaborazione e alla proposta di leggi per consentire, all’interno delle regole costituzionali, il più incisivo contrasto alle mafie, compito che poi spetta concretamente a polizia e magistratura. In quest’ottica l’apporto di avvocati è tutt’altro che inopportuno. Se invece, come avviene da anni, le commissioni parlamentari divengono organi paralleli di indagine, forse può risultare inopportuna una duplicazione di cui dovrebbe essere la magistratura per prima a dolersi

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