La libertà di Giovanni Brusca
La sua richiesta di uscire dal carcere, e il dibattito che ne è scaturito, si muovono in un campo oscuro dove il rapporto fra magistrati e condannati non riesce a trovare regole certe e trasparenza
Non posso che ringraziare Errico Novi che, sul Dubbio di ieri, cita qualcosa che ho detto nella rassegna stampa di Radio radicale di due giorni fa. Si trattava della vicenda relativa a Giovanni Brusca e alle sue richieste di uscire dallo stato di detenzione. Una storia molto complicata nella quale, più che al tema dell’ergastolo ostativo, sollevato dal Partito radicale e dalla sua combattiva dirigente Rita Bernardini, è forse utile riferirsi, per capirne qualcosa, alla legge sui collaboratori di giustizia e alla sua applicazione concreta. Sul tema delle pene il discorso è relativamente semplice. Ci sono paesi che non concepiscono l’ergastolo come pena ammissibile. Fece scalpore vedere condannato a 21 anni di carcere Anders Breivik, che nel 2011 uccise in Norvegia 77 giovani socialisti. La massima pena che in quel paese può essere comminata a un cittadino. Se si affrontasse la questione in termini di civiltà giuridica qui si proclamerebbe “siamo tutti norvegesi!” e anche se Brusca se ne avvantaggiasse, tornando a casa dopo aver scontato oltre vent’anni, il danno collaterale sarebbe tutto sommato minimo rispetto a un progresso civile che taglierebbe comunque l’erba sotto i piedi a eventuali Brusca futuri. Ma non siamo in Norvegia e la questione di Brusca “pentito a metà”, da un lato utilizzato dalle procure e dall’altro ignorato nelle sue dichiarazioni incompatibili con le ipotesi accusatorie, ce lo dimostra. Il contenzioso sulla sua libertà si muove dunque non alla luce del diritto ma in un campo oscuro dove il rapporto fra magistrati e condannati non riesce a trovare regole certe e trasparenza. Trattativa oscura sarebbe una espressione appropriata.