Note sull'uso della parola “manina” nel glossario politico italiano
Un certo gergo della politica è usato soprattutto da chi ha di essa una visione riduttiva e degradata al gioco di Palazzo nella sua versione più elementare
Sull’ingresso della parola “manina” nel glossario politico italiano ha già scritto da par suo Filippo Ceccarelli, rinfrescando la memoria dell’intercapedine nel covo di via Montenevoso e il suo tardivo sventramento. Un classico delle vicende oscure che tali appaiono destinate a restare. Qui si vuole fare solo una notazione di margine sull’uso del termine. L’evocazione di una manina non può essere definita propriamente una citazione, se non nel campo dell’opera lirica. In politica è un vezzo gergale di dubbio gusto, un luogo comune da retroscena di scarsa qualità. Dunque ha successo. È usato dall’insicuro che vuole apparire più navigato di quanto sia effettivamente oppure da chi ha una ridotta attrezzatura di espressioni riprese da vicende politiche delle quali più che padronanza ha una infarinatura. Tutto ciò già spiega ragionevolmente il motivo per cui Luigi Di Maio si sia fissato da un po’ di tempo sulle manine, ma qui non si vuole riproporre il discorso snob e stantio sulla relativa solidità culturale dello statista di Pomigliano. Piuttosto vale forse la pena di mettere in risalto come un certo gergo della politica sia usato soprattutto da chi ha di essa una visione riduttiva e degradata al gioco di Palazzo nella sua versione più elementare. Una visione perfettamente interna a un ceto politico privo di fantasia ma non di vizi. Quelli che, in ultima analisi, deplorano il fatto che la manina non sia stata la loro.