Dalla mafia non se ne esce?
Perché forse è venuto il momento di rivedere la logica della legislazione antimafia
La storia paradossale denunciata da Rita Bernardini e raccontata da Damiano Aliprandi sul Dubbio due giorni fa riguardava un ex detenuto, per di più riabilitato legalmente, cui è stato negato il posto di lavoro in una cooperativa di ex detenuti perché pregiudicato. La motivazione appare da un lato surreale, dall’altro del tutto illegale, se davvero, come scrive Aliprandi, la procedura di riabilitazione andata a buon fine. Quello che, se non spiega, motiva il bizzarro provvedimento è il reato per il quale l’aspirante cooperatore era stato condannato: associazione di stampo mafioso. Per capire occorre considerare le misure antimafia e i rischi in cui può incorrere una impresa che abbia fra i suoi dipendenti uno con un cognome effettivamente ingombrante e precedenti di quel tipo. Il punto chiave della questione sta nella logica della legislazione antimafia che, pensata prima del pentimento di Buscetta, prospettava l’appartenenza alla mafia come una scelta senza ritorno. La conseguenza logica era considerare il mafioso come irredimibile. Una scelta legislativa senza dubbio in contrasto con i princìpi, e la lettera, della Costituzione ma non per questo infondata. Almeno a quei tempi. Si tratta di capire se oggi sia possibile, sempre sulla base empirica che motivava se non giustificava quella evidente eccezione, rivedere il concetto alla base di quella legge. E’ evidente che il tema è delicatissimo e scivoloso, e non è detto che sia facilmente risolvibile, ma prima o poi bisognerà farci i conti.