La prescrizione non è una causa ma un effetto
Due cose che ci insegnano il caso del processo a Giulio Andreotti e la commissione d’inchiesta sul caso Sindona
La polemica sulla prescrizione ha fra l’altro causato un ritorno di attenzione sul processo a Giulio Andreotti. L’avvocata, e ministro, Giulia Bongiorno che sulla prescrizione si è schierata contro il suo collega di governo Bonafede, è un po’ la responsabile di questo curioso effetto collaterale. La sua esultanza alla lettura della sentenza è rimasta impressa e ora viene ritirata fuori come esempio plastico di chi vuol gabellare una condanna evitata solo grazie al fattore tempo per una assoluzione.
Una cosa va detta subito a scanso di equivoci: ha ragione chi sostiene che Andreotti è stato assolto solo dall’accusa di connivenza con la mafia dei corleonesi ma la sentenza afferma la sua colpevole frequentazione con la precedente gestione di Cosa nostra. L’ex procuratore Caselli e il suo allora aggiunto Lo Forte hanno dedicato, all’inizio di quest’anno, un libro alla questione e c’è poco da aggiungere su questo aspetto.
Il fatto è che quel processo fu inutile e foriero della peggiore demagogia negli anni successivi. La sentenza almeno, attraverso la prescrizione, segnala il tempo della mutazione dei rapporti fra mafia e politica. La soluzione del problema avrebbe potuto essere politica e più vicina ai fatti. L’occasione si presentò dieci anni prima con la commissione d’inchiesta sul caso Sindona quando il parlamento salvò Andreotti col voto congiunto di Dc, Pci e, ahimè, Psi dalle accuse del radicale Massimo Teodori. Fu un voto ispirato dalla realpolitik, chi lo nega, ma insegna che i garantisti non sono sempre innocentisti e che quando la politica perde un’occasione, alle lunghe la paga. Insegna anche che la prescrizione non è una causa ma, semmai, un effetto.