L'unica prova (debole) della trattativa stato-mafia

Massimo Bordin

“Il solo fatto concreto provato è il ritiro, nel novembre 1993, del 41 bis a 334 mafiosi detenuti”. Ma solo il 10 per cento risulta di siciliani, per il resto era stato messo di tutto, dagli spacciatori ai reati bagattellari

Il dottore Antonino Di Matteo lo ha segnalato più volte: “Dopo la sentenza non ne parlano più, prima sempre ad attaccarci per il processo trattativa, ora non ne vogliono più parlare”. Anche il direttore del Fatto è tornato più volte con adeguati editoriali a denunciare il colpevole silenzio. Poi il generale Mori ha parlato in pubblico difendendo la sua innocenza e il Fatto ha scritto che aveva auspicato, come minimo ma forse la cosa era ancora più grave, la morte dei suoi accusatori e giudici. Qui a scanso di equivoci si dà conto del recentissimo parere, in merito al processo, di un magistrato, membro del Csm in quota alla corrente di Piercamillo Davigo, dunque una voce al di sopra di ogni possibile sospetto.

 

Il dottore Sebastiano Ardita è intervenuto ad un dibattito sul tema, svoltosi a Roma al club del golf dell’Olgiata, ed è stato molto netto. “La trattativa fra stato e mafia c’è sempre stata, stratificata nel tempo. Ora c’è una sentenza e nessuno può più definire la trattativa presunta.” Questo è parlare chiaro. Su che si fonda la sentenza? “L’unico fatto concreto provato è il ritiro, nel novembre 1993, del 41 bis a 334 mafiosi detenuti”. L’unica prova, dice il dottore Ardita. Se è così c’è un problema. Di quegli oltre trecento carcerati solo il 10 per cento risulta di siciliani. Non si può escludere un membro di Cosa nostra nato per caso in Piemonte ma sarebbe comunque l’eccezione. E i trecento che restano? È Ardita stesso che risponde: “Era la prima verifica degli inseriti nel 41 bis, dove era stato messo di tutto, dagli spacciatori ai reati bagattellari”. La scrematura era inevitabile. Bene. Questa era l’unica prova. Dice Ardita.

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