Un climatologo intelligente
Che infatti non andrà a Copenaghen.
Sull'ultimo numero del nuovo magazine del Corriere della Sera, Sette, c'è un lungo approfondimento sul clima: si parla di Copenaghen e naturalmente si usano termini catastrofici per raccontare il futuro del pianeta (la copertina è dedicata a un articolo di Al Gore che chiama tutti a raccolta per salvare un orso appollaiato su un iceberg microscopico). C'è anche una bella, ragionata, interessante e comprensibile intervista di Franco Prodi, climatologo del Cnr tra i più stimati anche a livello mondiale. Guarda caso, Prodi non è stato invitato a Copenaghen. Se leggete questa intervista – che, per quel che vale, sottoscrivo anche nelle virgole – capirete perchè.
Pensate all'ambiente, il clima lasciatelo agli scienziati. Il professor Franco Prodi, fisico ed ex direttore dell'Istituto di Scienze dell'atmosfera e del clima del Cnr, è uno che le cose non le manda a dire. Che gli scenari apocalittici paventati da Al Gore non gli piacciano, non lo ha mai nascosto. Che li consideri più degni di una scenografia hollywoodiana che di un consesso internazionale. Lo si intuisce.
«Non sono negazionista né catastrofista ma la scienza sa ancora troppo poco dell'evoluzione climatica e i nostri modelli, quelli dell'Intergovernmental panel of climate change (Ipcc), sono nella loro infanzia. Questo non significa che il clima non può peggiorare. Anzi, proprio perché non è lineare ed è scarsamente prevedibile, il futuro potrebbe essere peggiore delle peggiori previsioni. Bisogna però evitare che di clima parlino solo gli economisti, gli agronomi o qualsiasi incompetente di passaggio ».
Non chi si occupa di clima da 40 anni, come lui. Professore, e Copenhagen? «A Copenhagen mica ci vanno gli scienziati del Cnr, ci vanno quelli che ha nominato il ministero…».
Di cosa si discute, allora? «Adesso il filone dominante è quello dell'“adattamento”, ossia si deve correre ai ripari per rimediare a un cambiamento climatico in atto. E si prende come dato di fatto un rapporto (quello dell'Ipcc, ndr) di scenari possibili».
Possibili? «Il riscaldamento globale ci sarà. Ma se non siamo neppure certi se sarà di 1 grado o di 8, che genere di previsione è mai possibile? Si discute soltanto di “principio di precauzione”. Ricordo una discussione che feci con mio fratello Romano, quando era presidente del Consiglio. Lui sosteneva che il politico deve comunque prendere in mano il problema e provvedere. Io gli risposi che la conoscenza scientifica, quella vera, si ha soltanto con una spiegazione e una previsione. Questo mi hanno insegnato all'università. La spiegazione e la previsione sul clima, oggi, non ci sono».
Perché? «Perché non si conoscono le nubi, la loro variabilità per effetto indiretto dell'aerosol (particelle e corpuscoli in sospensione in atmosfera, ndr), gli effetti diretti dell'aerosol stesso sui bilanci di radiazione… La CO2 influisce, ma lo stesso fa il metano. Se uno prende un modello di radiazione e l'adatta alla CO2 “vede” il riscaldamento, ma poi bisogna tener conto di tante altre variabili e incognite».
Insomma, l'hanno fatta troppo semplice? «Mediaticamente vien detto che c'è il riscaldamento globale e allora si deve fare questo mercato sulle emissioni di CO2. L'unica cosa chiara, mi pare, è che chi non lo rispetta è avvantaggiato e continua a farsi i fatti suoi».
Però ci sono alcuni dati incontrovertibili… «L'incontrovertibilità dell'Ipcc è che se consideri l'effetto antropico tornano i conti, altrimenti no. È una prova debole. Chi conosce il clima conosce anche le grandi fluttuazioni del passato, prima per periodi di 420.000, poi di 120.000, poi con oscillazioni sempre minori… L'uomo è “industriale” da appena due secoli, un battito di ciglia per i tempi del sistema climatico».
E allora, che si deve fare? «Puntare sulla ricerca. Serve l'appoggio dell'Onu affinché la scienza – le sue teste migliori – risolvano tutti gli interrogativi. Prendiamo le particelle atmosferiche, di cui son fatte le nubi: quelle antropiche (generate da attività umane) sono già il 20 per cento ma ne sappiamo ben poco. Stiamo cambiando anche le nubi ma in un modo che non conosciamo».
E nel frattempo, “business as usual”? «Nel frattempo c'è un ambiente planetario – ambiente, non clima – che fa schifo e ne parla solo il Papa. Dobbiamo trovare l'unanimità internazionale sull'ambiente, che è già deteriorato. Cosa ne facciamo di tutti i rifiuti che produciamo, per esempio? Altro che G8. È una crisi planetaria. Cina e India non possono chiamarsi fuori, continuare a produrre schifezza e ad alimentare la brown cloud sopra l'Asia adottando i peggiori modelli di sviluppo».
La “brown cloud” c'è anche sulla Padania… «Sì. Il deterioramento ha ormai colpito tutto il pianeta. Oceani compresi. I pesci sono imbottiti di metalli pesanti pure in Antartide. È necessario un approccio globale che affronti i tre poli del problema: energia, ambiente e clima. Non si possono prendere decisioni politiche solo alimentando il catastrofismo».
Al Gore sbaglia? «Quello è un mondo che non mi appartiene, dal quale la scienza viene esclusa. Il dialogo fra scienziati e politica internazionale, o Onu che dir si voglia, dovrebbe essere un aspetto accessorio, non dominante. La ricerca dovrebbe seguire i suoi canali e i suoi tempi».
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