Il tifone Haiyan e quell'istante di silenzio che manca
Sono rimasto colpito da due cose, vedendo le immagini e leggendo del tragico passaggio del tifone nelle Filippine.
Sono rimasto colpito da due cose, vedendo le immagini e leggendo del tragico passaggio del tifone nelle Filippine.
La prima è che la natura non è sempre buona, o benigna.
Ogni volta che succedono tragedie come questa si resta schiacciati dal mistero degli eventi: perché tante persone devono morire così? Perché tanti bambini devono perdere i genitori – e viceversa – perché migliaia di donne e uomini sopravvivere per poi rischiare di morire di fame e povertà subito dopo? Potrà esserci giustizia per tutti questi morti? Potrà esserci speranza per chi è sopravvissuto?
La natura non è perfetta come molti ci vorrebbero far credere, reca in sé una ferita che la deturpa e rende cattiva. Eppure, invece di riconoscerne i limiti e il mistero – e questa è la seconda cosa che mi ha colpito – l'uomo cerca subito un colpevole, che il più delle volte è egli stesso. La vulgata ambientalmente corretta vuole che la natura sia buona di per sé, e che a rovinarla e renderla cattiva sia la presenza attiva dell'uomo, il quale per alcuni dovrebbe limitarsi a vivere coltivando i campi vestito di pelli di animale: se la natura distrugge – è questa la sottintesa teoria dietro a tanti editoriali e articoli scritti in questi giorni – la colpa è dell'uomo. Se l'uomo non ci fosse, o almeno non si muovesse troppo, non ci sarebbero tifoni, uragani, persino tsunami (come se un terremoto sottomarino dipendesse dal clima).
Il fatto mi colpisce per due motivi. Innanzitutto perché arriva da chi ha assunto come dogmatico tutto ciò che viene espresso dalla scienza militante catastrofista, quella rappresentata dall'Ipcc e da Al Gore, che vede nelle attività umane la causa del riscaldamento del globo. Bene, questi stessi entusiasti del verbo del global warming dovrebbero sapere anche che se c'è una cosa sulla quale neppure gli esperti dell'Ipcc sono riusciti a esprimersi è proprio l'origine dei cosiddetti fenomeni estremi. Nell'ultimo report, e in diversi altri documenti, scrivono chiaramente di non essere in possesso di abbastanza dati per potere dire se tali fenomeni siano aumentati di numero e se siano più forti di un tempo, e soprattutto che nulla permette loro di dire se essi siano modificati dalle attività umane quali le emissioni di gas serra.
Mi pare che questo parlar d'altro, ricorrendo a tic e reazioni pavloviane ormai rodate (prendersela con il clima ripetendo il mantra non-ci-sono-più-dubbi-dobbiamo-agire-in-fretta funziona, fa fine e non impegna) non riflette altro che l'incapacità di molti di restare di fronte a certi avvenimenti consapevoli del mistero dell'esistenza e dell'impossibilità nostra di dare risposte scientifiche a tutto.
Poi, certamente, ci va l'analisi di come fare a ripartire e di come fare a evitare altri disastri simili. Ma è quell'istante di silenzio di fronte alla tragedia che manca. Una mancanza che porta inevitabilmente a forzare la realtà per incolpare noi stessi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano