Comune bio
La disfida del pasto vegano alla mensa scolastica e la deriva dei locali “a chilometro zero”.
Tra monnezze e trasporti, zitta zitta, nella Roma in cui la Procura riapre “il mistero Pasolini”, s’affaccia la disfida delle mense bio: dal primo settembre 2017, infatti, sulle tavole delle mense scolastiche, i bambini delle scuole romane potrebbero trovare anche il menù vegano, vegetariano e a chilometro zero. La sola idea (firmata Cinque stelle) già ieri ha scatenato allarme sui social network (“prima i vaccini, ora la carne”, scrivevano preoccupati gli internauti non sedotti dalla religione bio-eco-noglob). La proposta vera e propria sarà inserita nelle linee guida del capitolato d’appalto delle mense scolastiche del Campidoglio.
Obiettivo: menù realizzati “in maniera più equilibrata verso il vegetariano, con l’aumento di frutta, verdura e cereali” (pur mantenendo porzioni di carne). Il presidente M5s della Commissione Ambiente, Daniele Diaco, coadiuvato da “esperti” (uno chef vegano, un biologo nutrizionista, il pediatra Maurizio Conte, il vegan blogger Claudio Moretti) ha spiegato di voler “dare un indirizzo verso una sostenibilità anche attraverso l’alimentazione, ricorrendo a menù che non contengano prodotti di origine animale, con un apporto di alimenti vegetariani importanti, per una volta a settimana”. Un progetto “già avviato a Torino dalla sindaca Appendino”, e implementato con “l’uso di materiali compostabili all’interno delle mense scolastiche e la raccolta differenziata dei rifiuti umidi”. Ma l’entusiasmo a Cinque stelle per la filiera corta si scontra con l’opposizione non soltanto internettiana (gente che dice: “Prima pensate agli autobus, ai topi, alle buche, all’immondizia”).
In Campidoglio il Pd locale è scatenato: “Invitare gli esperti è utile”, ha detto la consigliere comunale Ilaria Piccolo, “ma se ne devono invitare di più. Abbiamo capito che la direzione della maggioranza è verso il vegetariano e il vegano, ma per farci un’idea complessiva si dovrebbe invitare anche l’unione macellai, altrimenti non va bene”. Questa la critica di Ilaria Piccolo, consigliera Pd. “Spesso sono invitate solo determinate associazioni e non altre, e parliamo di metodo, non del merito che invece seguiamo con attenzione”, dice, sempre dal Pd, Valeria Baglio. Poi c’è Fratelli d’Italia, con il consigliere Andrea De Priamo che, ferma restando l’attenzione “al tema della sostenibilità e della salute dei bambini”, invita la maggioranza a “non farne una bandiera di tipo ideologico… capisco chi condivide una scelta vegetariana, ma gli esponenti della maggioranza non si improvvisino nutrizionisti esperti e lascino lavorare i nostri uffici competenti, visto che li abbiamo”.
Ed è questo il segno dei tempi (anche romani), nella città dove finora l’abbacchio non era stato neanche lontanamente scalzato dal suo primato presso il cuore dei turisti, ma in cui ora il “dàgli” alla carne e il “viva il vegan” vengono innalzati non solo come stendardi elettorali e come simbolo divisivo tra un “noi” e un “loro” socio-politico (“noi” detto dai Cinque stelle che si intestano la battaglia “bio”, “loro” rivolto a un nemico partitico dipinto come insensibile alla battaglia antiogm-antioliodipalma-antibistecca-noglobal-nocasta-nolobby).
Capita infatti, passeggiando per le vie del centro storico, di scorgere sempre più bar e ristoranti riabilitarsi agli occhi del cittadino della Rete con sfilze di “cornetti vegani” (senza burro) e “pennette al sugo bio”. Ambizioni “no-carne” coltiva a volte pure l’aperitivo in zone sensibili al tam-tam intensivo vegano (“polpette di tofu” – visto a Testaccio; “crocchette di zucchine da coltivazione locale” – visto a San Giovanni; “tapas vegetariane” – visto dietro Piazza Navona). Altro che Stato etico (si ricordano con nostalgia gli anni in cui ancora ci si poteva irritare per una banalissima linea guida ministeriale anti obesità).
Il Foglio sportivo - in corpore sano