Il mercato dei ricordi
A Cetraro, in Calabria, si combatte con la lingua e con le ’ndrine. Un tempo si mangiava il pesce fresco al porto, adesso si fanno i conti con la modernità
Sono appena uscito a Lagonegro e scivolo giù verso la Calabria. Vado a Cetraro marina, dove, una volta, c’era un mercato ittico. Cioè, in realtà la struttura è lì, pronta all’uso, anzi la riapertura dovrebbe essere prossima, e però…E però prima di arrivare al dunque, cioè a Cetraro, al mercato, scivolo tra la nebbia e di tanto in tanto ascolto la pioggia battere sul parabrezza. I castagneti e i faggi attorno a me, e la nebbia, la pioggia, la luce che sparisce dietro la curva a gomito, come se fosse risucchiata. Ho sempre, da anni, la stessa sensazione, non appena esco a Lagonegro, che va be’ sì, è Basilicata, ma io taglio per Scalea, fra un’oretta dovrei essere a destinazione. Ah, la sensazione. Dunque, una volta il mio amico Beniamino Servino, un architetto, mi propose un esperimento mentale: parti dal centro di una città, chiudi gli occhi e vai verso l’hinterland. Ascolta la lingua, perché la città è di chi la parla. A occhi chiusi, è possibile tradurre quella lingua (che via via verso l’hinterland diventa spezzata, rauca, gutturale) in morfologia abitativa (e difatti le case sono ancora in nuce, incomplete, sembrano dei feti ipocalcificati). Naturalmente quell’esperimento mentale fondava anche una poetica: la poetica a sua volta generava delle domande: che fare con quell’altra lingua, con quelle case? Aboliamo tutto, imponiamo un lessico dall’alto? Cerchiamo un lessico comune, familiare? Dialoghiamo, magari proviamo a tradurlo (e tradirlo) quel linguaggio? Perciò mi guardo intorno, man mano che scendo verso la Calabria.
In Calabria (ma vale per molte zone d'Italia) ci sono delle cose oscure e delle cose luminose. O sono molto oscure o molto luminose.
A parte il pesce ottimo, avevano preso una casa a poco prezzo, proprio un buon affare, di fronte al mare, molto luminosa
E’ vero, ho gli occhi aperti (sto guidando) ma sento, sono concentrato sulla lingua. Mi arriva dal finestrino, sotto varie forme: imprecazioni, ambizioni, preghiere, esitazioni. Una lingua con tanti fonemi. E allora, ricordando le domande di Servino provo appunto a descrivere quella sensazione: in Calabria (ma vale per molte zone d’Italia) ci sono delle cose oscure e delle cose luminose. O sono molto oscure o molto luminose. Il problema è che tutto cambia in un attimo, un semplice battito di ciglia e passi dalla luce al buio. Non è solo questione di mare e monti: la maestosa Sila, spesso ombrosa e cupa e il luccicante sfavillio del mare. La verità: non sono come trattare con quella lingua. Abolisco tutto, intervengo dall’alto, dialogo, traduco? Per questa mancanza di sfumature il rapporto è così netto. Non è di poco conto il problema: cioè trattare la lingua. Ma sono qui anche per questo, mi piacerebbe una volta tanto trovare un modus operandi. E a proposito di lingua. Se vi immergete nelle relazioni semestrale della Dia potete notare (anche visivamente, per via dei grafici) che una buona parte del territorio è occupata da famiglie con una lingua speciale: poche parole, molte reticenze. Ormai sono note, per esempio, tutte le ’ndrine che governano il territorio, quelle che regolano, governano le province. Sono note (ovvie) anche le proiezioni geografiche di queste famiglie fuori dai confini calabresi (operano in tutto il mondo). Nel mandamento tirrenico ce ne sono una ventina. In particolare, il settore ittico su tutta la costa tirrenica dell’Alto cosentino era gestito da Francesco Muto (poi arrestato). Significa che sia i pescherecci, sia le pescherie, sia altre attività erano legate a Muto. Naturalmente, a leggere le relazioni Dia viene molto spontaneo pronunciare un’arringa civile, ma anche questo tono (pur sacrosanto) è difficile da affrontare, nella vita di tutti i giorni dico. Ho ricordi precisi di questa difficoltà. Negli anni Settanta, molti di noi, casertani o napoletani, andavamo in Calabria, per le vacanze. La mia famiglia (e con noi tanti amici) per esempio, ha passato parecchie estati vicino Cetraro. In genere subito dopo lo scoccare della primavera, tre adulti, in rappresentanza di un folto gruppo, partivano e andavano a Cetraro, al porto. Qui incontravano un mediatore che si occupava di affitti estivi. Era uno che parlava poco e sembrava docile. Andavano in giro, vedevano case (mattoni scoperti, senza intonaco, ferri della speranza in bella vista), ne sceglievano qualcuna, stringevano la mano al mediatore: affare fatto. Poi tutti al ristorante, pesce a volontà. Allora, ricordo, gli adulti, quando tornavano a casa, avevano un mezzo sorriso, da una parte contenti da una parte angosciati. A parte il pesce ottimo, avevano preso una casa a poco prezzo, proprio un buon affare, di fronte al mare, molto luminosa (non dimenticherò mai la luce accecante di certi pomeriggi), e tuttavia appunto, quel mediatore non li convinceva del tutto. Chi era? Che lingua parlava? Era strano. Dopo un po’, tuttavia, non ci pensavamo più. E partivano per la villeggiatura. Prendevamo possesso delle case e vabbè ci divertivamo un mondo, sembravamo degli esploratori in un posto selvaggio. Tuttavia alcune notti ci svegliamo di soprassalto o perché passava il treno o perché il silenzio era disturbante, appunto un rimbombo cupo, e trovavamo le case invase dagli scarafaggi. Alcuni si facevano afferrare per pazzi, come furie, come formiche ferite e confuse, cercavamo su e giù quel mediatore che aveva garantito per la salubrità delle strutture. Nisba, sparito, latitante, e così ci tenevamo gli scarafaggi. Cioè, compravamo ddt a tutto spiano e ci consolavano con il mare, bellissimo e spumeggiante, pieno di pesci, finché una decina di giorni dopo di nuovo ci facevamo afferrare per pazzi: il mare ora era sporco, lungo tutto il litorale, c’era questa scia di melma giallastra. Che fare? E che fare? Niente! aspettavamo le correnti, una mareggiata - che poi arrivavano sempre e portavano via tutto- per tuffarci di nuovo. Eppure, e questo è il problema del rapporto con la lingua, tra maledizioni e imprecazioni, tra infinite discussioni sulla Calabria e i calabresi, mai ci è venuto in mente che quei scarafaggi e quella melma li volevano noi. Erano nostri prodotti. Avevamo barattato un buon prezzo con case abusive, un mare bellissimo ma che noi sporcavamo, visa la cronica assenza di depuratori. Con quella lingua- la stessa che poi produceva quelle case e quell’inquinamento, le brutture ecc- avevamo fatto i patti: eravamo complici. Un dilemma: mi guardo indietro e penso che le migliori vacanze della mia vita le ho fatte in Calabria ma indubbiamente ho contribuito a finanziare un’economia poco efficiente, insalubre, che generava pochi (privati) profitti e molti costi, tutti ripartiti e pesantemente sul territorio. E dunque, con quei ricordi, ora a leggere le relazione della Dia non mi stupisco. Era ovvio che finiva così. Perché meravigliarsi della quantità di famiglia ndranghetiste e delle infiltrazioni, delle ramificazioni globali. Non è cambiato poi molto, il rapporto fra noi del centro (con una lingua) e loro di periferia (con altro tono) è irrisolto. Compravamo la luce ma rischiavamo l’ombra. Ora, appunto, il mercato ittico di Cetraro è chiuso. Lo controllava Muto e lui è agli arresti. Il mercato è stato affidato a un’associazione di pescatori che per un po’ l’ha portato avanti, finché si è scoperto un’infiltrazione mafiosa e dunque di nuovo chiuso. Rimane una pagina Facebook, con un paio di post e foto ordinarie. Alle 20 Cetraro è già deserta. Ho trovato un bed&breakfast molto carino (terrazza sul mare) ed economico. Meno male che un ristorante aperto c’era. Cucina casareccia, buona, mamma, padre, figlio e nipote, tutti a dare una mano. Antipasto di alici e pasta con le alici. Va bene, ma ho chiesto al gestore: perché solo alici? E mi ha spiegato che il mercato del pesce è chiuso (parlava bene, preciso, senza aspirare l’acca, aveva studiato a Roma, poi a metà percorso era tornato, sentiva la nostalgia, al contrario di suo fratello che è andato fuori dai confini e non ci pensa a tornare). Chiuso perché uno dei pescatori si è menato con un altro, al porto, e insomma pare sia questa la goccia, la fedina penale sporca di un singolo ha fatto collassare l’associazione dei pescatori (non credo sia proprio questo il motivo ma sembrava convinto).
Va bene, però eravamo a Cetraro, in alto. Se guardavi il mare vedevi le luci delle reti e le lampare dei pescatori, come mai solo alici? Come perché? Perché quando c’era Muto, bene o male, lavoravano tutti. Il pesce si distribuiva. Ora, invece, a mercato chiuso, funziona così: al mattino arriva un camion frigorifero da Napoli, si carica tutto il pescato e se lo porta via. Se vuoi acquistare pesce diverso devi accontentarti di quello che rimane dopo la compravendita all’ingrosso, cioè poco o niente. Che poi è sempre lo stesso problema: come trattare con le lingue locali. Capita per esempio che un azienda mafiosa venga confiscata con motivazioni sacrosante: hai realizzato questa azienda con la violenza, hai violato le regole e ora restituisci tutto. Qualche volta però l’associazione che prende in affido il bene sequestrato non è capace di gestire il suddetto sul mercato (magari è un associazione culturale, fa un po’ di agricoltura bio, qualche rassegna di libri e celebrazioni varie) e così l’azienda fallisce il suo scopo, innervare con la buona economia un territorio depresso e i cittadini, a volte a denti stretti, col mezzo sorriso, lo dicono infine: quando c’era lui… funzionava tutto. Insomma, se il nuovo bene, sottratto alla vecchia e aspra lingua, non trova una nuova metrica, poi si forma un circolo vizioso. Con i cittadini che dapprima sono contenti perché si sono liberati dal camorrista di turno (dal buio alla luce), poi si ritrovano a rimpiangerlo perché sono finiti nell’oscurità.
Il mercato era stato affidato a un'associazione di pescatori che per un po' l'ha portato avanti, finché ha chiuso di nuovo.
Se vuoi acquistare pesce diverso devi accontentarti di quello che rimane dopo la compravendita all'ingrosso, praticamente niente
Cosa resta da fare? Cercare il pesce. Qualche pescheria fornita c’è. Una a Guardia Piemontese per esempio. Ma i prezzi non sono all’ingrosso.. Non resta che provare con qualche ristorante sulla costa, uno di quelli ben forniti. Ma quel gestore ti spiega che non te lo può dare: se lo da a te, poi deve darlo a tutti. E allora pazienza, alici. Ecco, nonostante i buoni propositi e l’impegno personale come fa un economia di questo tipo a crescere? A crescere con autonomia e secondo regole condivise? E’ sempre sull’orlo dell’oscurità. Anche se poco prima c’era la luce. Cetraro ha un grande passato dietro le spalle. Negli anni Ottanta c’era tutto, Energy e Benetton lungo la strada principale. Ancora prima, Cetraro ospitava un’industria tessile di buon livello, la fabbrica tessile Faini. Produceva costumi da bagno. Ma in seta però. Cetraro, dicono le persone in piazza e nei bar, allora era il centro del mondo, ci venivano in tanti a lavorare, decine e decine di donne dai paesi limitrofi. Contadine alle prese con i telai. Era l’epoca della grande espansione, poi arrivò il lycra, che è tanto più economico ma la Faini non se ne accorse in tempo. Cassa integrazione e chiusura dell’industria. Poi piani di rilancio, poco efficaci e alla fine addio polo tessile. Con un po’ di soldi chi ha potuto ha costruito le case sulla costa (con quel linguaggio d’occasione, spezzato, rauco e aspro) e con l’aiuto di un mediatore le ha affittate alla mia famiglia. Abbiamo barattato lo scintillio del mare con quella striscia gialla prodotta da noi stessi. E ora, come la mettiamo? Con quella lingua. Aboliamo tutto o dialoghiamo. C’ho pensato mentre, dopo cena, con la macchina percorrevo un tratto di costa, che conoscevo bene, perché, appunto, c’avevo passato le vacanze migliori della mia vita.. Sì, certo, dei miglioramenti erano palesi. Non c’erano più le case con i ferri della speranza, tutto era più ordinato. E poi le palme per esempio, e lungomari gradevoli, ben tenuti e semplici. Ma quel buio, quelle case sulle colline. Poche luci sparse. Di notte ho risentito quella sensazione, ho sognato la luce e l’ombra. La mattina prestissimo sono sceso al porto. I pescatori sono arrivati (è molto emozionante vederli arrivare, da ragazzino era un privilegio che gli adulti ti concedevano di tanto in tanto) ebbene, tutto il pescato è entrato nel vago frigo di un camion e via. Quello che è rimasto, alici appunto, è stato sistemato in cassette di polistirolo. Con l’aiuto di api e altri furgoni è stato portato in piazza a Cetraro. Qui il pescatore, con il suo cappello di lana rosso e la sua bilancia, ha servito i clienti. Il prezzo era buono, ma erano solo alici. Cambierà stagione e di certo si saranno altre varietà di pesce, ma il problema resta: con poca varietà e pochi investimenti come cresce l’economia di un luogo? Ho girato e rigirato con la macchina, mi sono peso un paio di volte. La vegetazione nell’interno è aspra e ci sono piante erbacee con fiori dai colori pungenti e bellissimi. A me piace. E accanto ai fiori ho visto decine di betoniere. Quelle per impastare il cemento, elettriche, poco costose. Tutte in funzione. Ah, quell’abusivismo di un tempo, a vedere le betoniere sembrava ancora in forze: il fai da te lo sentivi nell’aria. Quella voglia di alzare su un piano, così dalla sera alla mattina.
Però mi è dispiaciuto tanto lasciare il mare, sì vabbè, i ricordi lirici ecc, va bene, volevo mangiare il pesce che mangiavo da ragazzino, e mi sono toccate le alici, ma non è solo questo. Mi è dispiaciuto perché non ho capito ancora come ci si rapporta con quella lingua, come si lavora sulla luce e sull’ombra, qual è lo stile che ti permette di non essere correo. Perché in fondo il piccolo porto di Cetraro è una metafora, e ti lascia sospesa una domanda: è vero che il pesce puzza dalla testa oppure è vero il contrario, ognuno di noi a suo modo lo rende puzzolente?
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