Davanti al genocidio di cristiani, più del dialogo potranno le bombe
Roma. L’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra, mons. Silvano Tomasi, ha messo sul tavolo l’opzione della guerra giusta per estirpare dal vicino oriente e dalle metastasi nordafricane il Califfato retto da Abu Bakr al Baghdadi. “Dobbiamo fermare questo tipo di genocidio, altrimenti un domani ci chiederemo a gran voce perché non ci siamo mossi, perché abbiamo permesso che accadesse una simile terribile tragedia”. Il dialogo, ça va sans dire, rimane l’opzione privilegiata. Ma quando l’interlocutore risponde con crocifissioni, decapitazioni, mutilazioni e roghi umani, bisogna valutare le altre soluzioni. “Quel che serve è una coalizione coordinata e ben organizzata che faccia il possibile per raggiungere un accordo politico senza violenza. Ma se questo non è possibile, l’uso della forza sarà necessario”, ha detto il prelato al portale americano Crux, che non a caso parla di “un insolitamente schietto avallo a un’azione militare”. Il tutto, ha aggiunto Tomasi, dovrà avvenire “sotto l’egida delle Nazioni Unite” e dovrà “includere gli stati musulmani del medio oriente”, perché è bene evitare “un approccio occidentale”. Le parole del presule fanno seguito alla dichiarazione congiunta presentata al Consiglio dei diritti umani di Ginevra da Santa Sede, Russia, Libano e sottoscritta da quasi settanta paesi, in cui si afferma la necessità di “sostenere la radicata presenza storica dei cristiani e di tutte le comunità etniche e religiose del medio oriente di fronte alla minaccia terroristica”. Mai, prima d’ora, uno specifico documento per la difesa dei cristiani era stato portato all’attenzione dell’organismo onusiano.
L’abbandono progressivo della prudenza da parte della diplomazia della Santa Sede – atteggiamento che va nella direzione di quanto da mesi vanno chiedendo vescovi e patriarchi iracheni e siriani, costretti a fare i conti con la scomparsa delle comunità cristiane dalle terre conquistate dalle milizie jihadiste – risale a qualche settimana fa. A metà febbraio, infatti, davanti allo sgozzamento dei ventuno copti in Libia, il segretario di stato, Pietro Parolin, disse che “occorre intervenire subito, ma sotto l’ombrello dell’Onu”.
[**Video_box_2**]Lo scorso 11 marzo, poi, tenendo una lectio magistralis all’Università Gregoriana, il cardinale Parolin aveva chiarito che “nel disarmare l’aggressore per proteggere persone e comunità non si tratta di escludere l’extrema ratio della legittima difesa, ma di considerarla tale e soprattutto attuarla solo se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere e si hanno effettive probabilità di riuscita”. Dopotutto, ricordava mons. Tomasi, l’azione militare internazionale in difesa delle minoranze “è una dottrina che è stata sviluppata sia in seno all’Onu sia nella dottrina sociale della chiesa cattolica”. E’ il ritorno in auge del principio della “responsabilità di proteggere”, il principio sviluppato da Benedetto XVI davanti all’Assemblea generale del Palazzo di vetro, nell’aprile del 2008: se uno stato non è in grado di proteggere i propri cittadini da forme di terrorismo, la comunità internazionale ha il dovere di intervenire. “Capisco che questa sia una dottrina controversa, tanto che alcuni paesi vi si sono opposti fermamente, ma è un principio fondamentale”, diceva a questo giornale il 6 marzo scorso padre Richard Ryscavage, gesuita, sociologo e docente di Studi internazionali alla Fairfield University, nel Connecticut: “Si sta tentando di spazzare via i cristiani dalla loro terra”, e “non dobbiamo dimenticare che il male su questa Terra esiste e può infettare le persone”. “Quando ciò accade, il dialogo e la pace sono impossibili, senza una qualche forma di intervento militare,” aveva aggiunto. Ipotesi che comunque neanche il Papa – che domenica ha parlato a braccio di “persecuzione dei cristiani che il mondo tenta di nascondere” – aveva escluso, sebbene avesse precisato nel corso di una conferenza stampa aerea che “fermare l’aggressore ingiusto non vuol dire bombardare o fare la guerra”. Già la scorsa estate, il rappresentante diplomatico della Santa Sede a Ginevra aveva parlato di “azione militare forse necessaria”, osservando che nella piana di Ninive “le persone vengono decapitate a causa della loro fede, le donne sono violentate senza pietà e vendute come schiave al mercato, i bambini sono costretti a combattere, i prigionieri massacrati in barba a ogni legge”.
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